Stando con i miei amici c’erano cose che proprio non riuscivo a sopportare. Tutti che mi dicevano: “Ah, tu sì che sei fortunato, sei il figlio di…”. “Tu hai i soldi, tu non hai problemi, tanto c’è papà! Cosa ti manca?”
Continuavo a ripetere le loro frasi nella mia testa, mentre stringevo i denti dal nervoso e il sangue mi ribolliva. Come se io stessi bene. Come se non avessi motivo di star male. Mio padre c’è sempre stato per tutti quelli dell’azienda, ma mai per la sua famiglia. Così ho sempre cercato di dimostrare a tutti che io non centravo niente con i ricchi e inoltre, ho sempre cercato di dimostrarmi più grande e maturo della mia età proprio per far vedere che non avevo bisogno di mio padre, non avevo bisogno di nessuno. Anche mamma lavorava, faceva l’impiegata ma, al contrario di mio padre, era decisamente più presente. Posso dire che con lei avevo un bel rapporto ma non è mai stato di quelli intensi, diciamo che eravamo come due amici. Il rapporto con mio padre invece era assolutamente nullo, lui era sempre al lavoro e una cosa che ricordo è che non ci siamo mai scambiati un abbraccio. Guardando le famiglie degli altri bambini capivo che la mia non era proprio così felice. Io stavo bene con i miei fratelli, scherzavamo e giocavamo continuamente ma c’è sempre stata una grande differenza tra noi: il carattere. Al contrario loro, io ero decisamente ‘esplosivo’. Non era strano per me avere una giornata no e quindi dar fuoco al giardino, allagare la casa con acqua e sapone, o fare una bella guerra con il cibo insieme ai miei fratelli. Loro per me erano una valvola di sfogo, perché è vero che sono sempre stato allegro e sereno, ma in realtà dentro sentivo un grande vuoto, era l’assenza di mio padre. Oggi me ne sto rendendo conto, ma allora ero solo arrabbiato. Capitava molte volte che mamma ci lasciasse in ufficio da papà e lui a fine giornata, se ne tornava a casa lasciandoci lì, si dimenticava di noi e poi era costretto a tornare indietro per venire a prenderci. Così tutta quella strada e quel tempo sprecati lo facevano innervosire ancora di più. Io invece ricordo bene tutti quei viaggi in macchina. Mi chiedevo sempre cosa dovevo farmene di tutte quelle cose, di quei giochi, se poi stavo così. Ricordo che molti pomeriggi passavo davanti al campetto, vicino a casa mia, dove tutti i bambini giocavano, assieme ai loro padri. Li invidiavo tantissimo. Restavo lì fermo a guardarli fino a che stanco, la sera, tornavo indietro e facevo finta di niente. E tutto questo non l’ho mai raccontato a nessuno, finché non sono arrivato a Sanpa. Se devo essere sincero, quando sono arrivato qui ho passato tanto tempo a dare le colpe ai miei genitori, per quello che mi avevano fatto passare. Un po’ ancora speravo di fargliela pagare. Non volevo più avere niente a che fare con loro, volevo riprendere la mia vita in mano e andarmene. Come a dirgli: “È stata colpa mia se mi sono drogato e ce la farò grazie alla Comunità. Voi non c’entrate più niente nella mia vita”. Ma alla fine per fare questo percorso ho dovuto fidarmi, dei ragazzi che vivono con me e dei responsabili che mi dicevano che dovevo parlare con loro. Perché erano i miei genitori e dovevo affrontare queste cose se davvero volevo uscirne. Non capivo il perché, ma la prima cosa che ho imparato qui è che se vuoi una mano da qualcuno, devi fidarti di lui. Così l’ho fatto. Ho rincontrato i miei genitori e dopo trent’an ni gli ho vomitato tutto addosso. E quello che mi è tornato indietro mi ha cambiato completamente. Quando ero piccolo mio padre ha rischiato di andare in rosso con l’azienda, di perdere tutto e restare indebitato a vita. Era per questo che non c’era mai. Chiunque potrebbe dire: “Vabbè, non è colpa di nessuno”. Quel giorno ho imparato tante altre cose, però. Delle sere in cui tornava a casa e si metteva a fare il secondo lavoro per mantenerci, in quel periodo di difficoltà. Di come ha pianto quando mamma l’ha lasciato, portandogli via tutto. Non ci è stato vicino per due anni, per ricostruirsi qualcosa. Mi ha raccontato di quando ci ha rivisti e ha ritrovato un figlio tossico. Mi ha spiegato di come ha provato a portarlo fuori da quel mondo, seguendolo dalla mattina alla sera, parlandogli, portandolo dallo psicologo, chiudendolo in casa, facendo a botte con lui fino a fargli perdere i sensi. O di quando ha chiamato i carabinieri, per farmi arrestare. Sì. Mi ha raccontato della settimana in cui veniva in camera mia, di notte, per prendere la droga dalle mie tasche, controllare che non ne avessi abbastanza perché finissi nei guai veramente. Ha buttato via l’eccedenza, poi ha rimesso tutto a posto, per chiamare il 113 e farmi venire a prendere. Non so dirvi cosa sia giusto o di chi sia la colpa. So soltanto che ho passato tanto tempo ad odiare una persona, senza sapere davvero tutto quello che c’era dietro. Oggi non so ancora con chiarezza cosa ne penso, cosa ho deciso. Mi domando spesso quante cose che non conosco ci siano dietro ad ogni persona che mi ha voluto bene. Quanto tempo ho perso dietro ad un odio che ho continuato ad annaffiare ogni giorno? Quanto male ho coltivato a vuoto dentro di me? Devo essere sincero, non ho una risposta a tutte queste domande, le sto ancora cercando. Ma ho tanta voglia di vivere. Di stare con il mio papà, ora che sono grande, di passare dei bei momenti con lui e vivermi tutte le cose che mi sono mancate. Non posso rimediare al passato ma posso vivere oggi, e forse anche domani. Oggi sto bene per davvero. Prima pensavo alla mia vita e mi indurivo, come se niente dovesse ferirmi mai più. Oggi mi guardo indietro e so che posso piangere. Ho diritto di soffrire, di essere sensibile, di guardare con occhi adulti tutto quello che mi manca e che mi è mancato. E posso riconquistarlo oggi, con chi mi ama davvero.
Articolo di M. tratto da “Sanpanews-Voci per crescere” N° 51 dicembre 2020
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