Quella piccola finestra di legno

Sono le 11.45. Apro gli occhi, guardo fuori dal finestrino e vedo che sotto di me c’è un lembo di terra che costeggia il lago Vittoria. Mancano circa venti minuti all’atterraggio. L’aereo sta iniziando a scendere. Sudo, mi fanno male le gambe, avrei bisogno di stenderle, ma i sedili sono troppo attaccati. Ho lo stomaco vuoto, è da ieri che non mangio, mi sento debole

Fra poco arriverò a Entebbe: si trova in Uganda. Io sono originaria di lì. Il mio villaggio dista un bel po’ di chilometri dall’aeroporto, penso che noleggeremo una jeep per arrivarci. Questa è l’ennesima volta che mia madre decide di mandarmi dai miei parenti: succede quando non riesco a disintossicarmi da sola. Nella clinica dove sono stata prima di partire le hanno consigliato due cose per farmi riprendere: o una comunità terapeutica o un’esperienza forte. Solo così sarei riuscita a smettere una volta per tutte. Secondo i miei, era meglio la seconda ipotesi: cosa poteva esserci di più forte se non qualche mese in un villaggio dell’Uganda? A me alla fine andava meglio, non vedevo l’ora di starmene lontana da casa per qualche mese! In più sono sempre stata molto legata alla mia terra, mi sentivo più a casa lì che con i miei. Mia madre non ha mai portato avanti la tradizione africana in casa ma, nonostante ne abbia sempre sofferto, non riesco ancora a fargliene una colpa; solo mia nonna lo faceva, raccontandomi vecchi aneddoti e ripresentandomene tutti i giorni gli usi e i costumi. D’altronde, lei fu la prima donna di colore ad andare in giro per Firenze con gli abiti tipici del nostro villaggio! Abuoli – il suo nome dell’anima – non si è mai vergognata delle nostre origini. Ed è per questo che l’ho sempre stimata. Adesso sono le 16.30. Finalmente siamo arrivati al villaggio. Il viaggio non è stato dei migliori, la strada dissestata mi ha provocato ancora più dolori alla schiena di quando sono partita. Eccoli tutti lì ad aspettarmi, saranno una cinquantina di persone. Mi vengono incontro, non capisco molto di quello che mi sta succedendo intorno. Ho caldo, vorrei solo stendermi sul letto e dormire. E invece mi guardo in giro: tutti quei colori, quegli abiti stupendi, è pieno di bambini che urlano e ridono intorno alla mia jeep, gente da ogni parte che mi offre frutta. Mi stavano aspettando! Passano i giorni, e scopro che lì gli psicofarmaci posso averli pagando. Splendida notizia. Ma l’astinenza si sta facendo sempre più forte. Non riesco nemmeno a scendere dal letto, non so come fare a procurarmeli. Cosa m’invento adesso? Panico. L’unica cosa che posso fare è mettermi a letto e vedere se riesco a stare meglio. Chiudo un attimo gli occhi ma vengo svegliata da rumori. Chi sono tutte queste persone che vengono verso la mia capanna ridendo? Mio cugino si avvicina al letto e mi fa sapere che nel giro di qualche ora verranno a trovarmi parenti da tutta l’Uganda. Hanno saputo del mio arrivo, hanno lasciato tutto e sono partiti. Qui sono fatti così. La famiglia sopra ogni cosa. Richiudo gli occhi, mi addormento di nuovo. Li riapro. Mi trovo accerchiata da una trentina di persone, gente che fa avanti e indietro dalla mia stanza, lasciano cose, mi accarezzano le mani e la faccia, mi baciano. Io però sono bloccata, inerte, in un bagno di sudore. Mi addormento, esausta. Non ho più molti ricordi dei giorni a venire, so solo che ho passato circa un mese chiusa lì dentro. Riflettendoci, sono stata catapultata in una realtà completamente differente dalla mia, dove i miei parenti, senza nemmeno conoscermi, hanno subito accettato me e la mia condizione, non facendomi mancare cure e attenzioni. Io l’astinenza l’avevo già provata, ma stavolta quella da Fentanyl era stata veramente forte. Le poche volte che riuscivo ad alzarmi dal letto, sentivo e vedevo tutto da quella piccola finestra di legno: bambini che si rincorrevano ridendo, scalzi e sporchi, donne che cucinavano pollo e riso su grandi fuochi e uomini che facevano avanti e indietro con grandi cestini di viveri. Sulle loro facce, nonostante non avessero niente, non ho mai visto segnali di scontento. Io invece, abituata ad avere tutto, ero ridotta a stare in unletto, non riuscendo a godere di tutto quello che avevo. Tutta quella situazione mi faceva soffrire: da una parte ero contenta di essere lì, con la mia gente. Dall’altra, invece, mi pesava non essere lucida, mi faceva stare male. Ho sempre cercato di fare da ponte tra la cultura italiana e quella africana, ma la condizione in cui ero non mi aveva permesso di entrarci in contatto. Ora sono a San Patrignano, da circa un anno e mezzo: l’ultima volta che mi hanno messo davanti ad una scelta, non ho scelto l’Africa ma la comunità. Adesso sto meglio, ma la mia testa non fa altro che pensare a quell’esperienza: e vengo inondata da una grande malinconia. Avrei potuto prendere tanti spunti dalle persone che ho conosciuto in quei mesi: quelle persone amano la vita, basta un niente per farli sorridere, e non sanno cosa vuol dire la parola giudizio. Nel villaggio non esiste il diverso, c’è unione, siamo tutti una grande famiglia. Lì ho trovato una solidarietà e un amore mai visto prima, ma la cosa più importante è che ho respirato la libertà di poter uscir fuori senza dovermi curare del giudizio degli altri. Tutto questo, fino ad allora, non l’avevo mai provato. Ho passato tutta la mia infanzia a scontrarmi con i pregiudizi e con il peso di avere un colore della pelle diverso dagli altri; non riuscivo a capire le mie origini, non mi sentivo né italiana né africana, e questo mi ha portato a soffrire sempre di grandi crisi d’identità. Dentro di me ho sempre sentito un grande vuoto, che negli anni non sono mai riuscita a colmare se non con la droga e con l’alcool. Non sopportavo più la realtà che mi circondava. E tutte le volte che mi ripromettevo di smettere, al rientro dall’Uganda, la sostanza tornava con prepotenza a fare da padrona. I ricordi di tutti quei viaggi erano sempre più vividi ogni volta ma non abbastanza forse da farmi cambiare la mia visione di vita: io, infatti, al contrario della mia gente, la mia vita la odiavo. Ma ora è tutto diverso.

Valentina
Tratto da “Sanpanews – Voci per crescere” n° 71 – agosto 2022