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Mille pensieri in testa

Ehi! Sì, dico a te!! Ci siamo presentati la volta scorsa, ti ricordi? Sono Luca, ti ho parlato del mio primo invito! Dopo un anno, avevo rivisto la mia sorellina, Irene. La persona a cui tengo di più al mondo. Per me guardarla ha sempre avuto un significato particolare; non è facile da spiegare, ma ci proverò. Partiamo da quello che ho visto nei suoi occhi quel giorno

Da piccolo ero un sognatore, ero sempre con la testa a fantasticare e come tanti bambini volevo diventare un calciatore. C’era solo una cosa che mi riportava alla realtà, era un pensiero più forte di qualsiasi emozione provata fino ad ora. Era sempre lei, con quello sguardo diceva più di mille parole. Il suo nome è Irene ed è la mia bellissima sorellina, forse la prima a cui mi sia affezionato. Ma che dico, qui non si parla di semplice voler bene! E’ una cosa che non si può spiegare… Ti faccio un esempio: hai mai provato a spiegare a qualcuno perché lo abbracci? No, o almeno: io non lo faccio mai. So soltanto che in quel momento ho voglia di stringerlo forte intorno a me, ne ho bisogno. Se ci penso intensamente non riesco a dare una risposta razionale e precisa. Lo faccio e basta.

Certe cose non si possono spiegare. Ecco, io le voglio bene in questo modo. Lei ha gli occhi più belli del mondo, pieni di gioia e felicità. La mia vita con lei appariva perfetta, ricca di scoperte, fatte sempre assieme. Le volevo davvero troppo bene, la difendevo. Pian piano mi scontrai con le prime crepe di tristezza su sfondo di felicità. Non ricordo ancora quando, perché o in che modo, ma mi accorsi che la mia sorellina veniva lasciata indietro dagli altri bambini. Non la invitavano quasi mai alle feste di compleanno, spesso veniva esclusa dai giochi. Mi sembrava che il mondo fosse matto, non capivo, ma non importava. Ovunque andassi io me la portavo dietro. Un giorno la realtà arrivò, tutta in un colpo. Capii perché tutti si comportavano così con lei. Un giorno, sentendo i miei genitori parlare, li sentii dire che Irene era disabile. Non riuscivo a crederci, ma era così. In quel momento, tante piccole cose che avevo notato di sfuggita cominciavano ad avere senso, in un disegno più ampio. Ma comunque per me non aveva penso. Non potevo accettarlo. Io non ero triste per come era fatta lei, no.

Assolutamente. E quello che mi faceva star male erano gli altri, il modo che avevano di comportarsi con lei. Da quel giorno in poi ho conosciuto un’altra emozione fortissima. La rabbia. Una rabbia che mi divorava dentro, che non trovava giustificazioni. Era il giorno del mio settimo compleanno, stavamo festeggiando in casa. A un certo punto, dopo gli innumerevoli giochi con gli animatori, mi giro e vedo la mia sorellina che piange, da sola, vicino al tavolo del buffet. Dentro di me sento come se qualcosa si spezzasse, “un vaso che si rompe”. Mollo tutto e vado da lei, le domando cosa sta succedendo, mi fa vedere il ginocchio sbucciato. Mi dice che un bambino l’aveva presa in giro e poi spinta. In quel secondo mi passarono mille pensieri per la testa. Non volevo chiedere spiegazioni. Ero stanco dei loro scherzi, delle loro scuse. Irene stava male. Non lo accettavo più.

Appena l’ho visto, in mezzo a tutti gli altri, non sono riuscito a trattenermi. Mi sono lanciato su di lui per fargli più male possibile. Dopo venti secondi si era creato un cerchio di bambini, intorno a noi.

Dopo qualche minuto ero sfinito, avevo gli occhi di fuori, piangevo mentre facevo a botte con il bulletto. A un certo punto ho visto la mia sorellina. Non stava esultando, cioè non m’incitava. Era impassibile, non riusciva a dire o fare niente. Poi è corsa via. Solo allora ho mollato e sono andato a chiederle perché fosse scappata. Lei mi ha stretto fortissimo, senza dire niente. Il mio era tanto un modo per sfogarmi, perché non sopportavo alcun sopruso nei suoi confronti; ma così non la aiutavo. Lei non era felice se la difendevo a quel modo, le facevo paura.

Quel giorno non ho capito davvero cos’avevo fatto, ma una cosa era certa: il mondo cominciava a pesarmi troppo, rischiavo di farmi schiacciare. C’era sempre qualche problema a scuola, io ero molto aggressivo. Spesso i nostri genitori litigavano. Pensavo che il problema fossi io, quello che combinavo. Allora sembrava tutto cosi complicato, non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Un giorno come tanti altri, era pieno inverno, il vento faceva battere le finestre della classe, pioveva molto forte. Insomma, il solito tempo di Milano. Ero mezzo assonato sul banco, quando entrarono in classe due signori. Io facevo finta di niente.

A un certo punto mi chiamarono, mi presero la cartella e mi portarono via dalla classe.

Ero spaventato, il primo pensiero fu subito rivolto a lei, la mia sorellina. Per fortuna quando siamo arrivati alla macchina l’ho trovata lì, seduta sul sedile posteriore con lo zaino tra le braccia, tranquilla come se sapesse già tutto. Questo mi ha dato il coraggio di salire in macchina. Non sapevo cosa fosse successo. Quel giorno non tornai a casa mia. Non ci sarei tornato mai più. Mi sentivo come una bici a noleggio, sballottato da una parte all’altra. Non capivo. Cosa stava succedendo? Che avevo fatto di male?

La mia nuova casa aveva un nome, una parola che provoca così tanto freddo dentro di me che non volevo nemmeno che esistesse. Orfanotrofio. Non capivo, la realtà era troppo dura per me in quel momento. Non sapevo con chi parlare, che cosa fare. Ma lei era lì con me e il suo sguardo mi proteggeva da tutto il mondo. Non sapevo ancora come sarebbe andata, non avrei potuto immaginare quello che stava per accadere. Ma a me bastava guardare gli occhi di Irene, per capire; in quel momento tutto aveva senso, anche continuare ad andare avanti.

Luca

Tratto da “SanpaNews”. Scopri come riceverlo