Quando ero molto piccolo, qualche volta, sentivo parlare di te come un qualcosa di malvagio, l’orco cattivo delle classiche fiabe che si raccontano ai bambini e mi facevi molta paura. Poi il nulla. Per anni non ti ho considerata, passavo le giornate nei cortili, tirando calci ad un pallone e sbucciandomi le ginocchia di tanto in tanto. L’adolescenza ha portato con sè tutte quelle splendide prime volte in cui fai qualcosa che sembra gigantesco, le cose che fanno i grandi: uscire da solo il sabato pomeriggio, le prime 10 mila lire lasciate da mia madre per un gelato in centro e così via finché, piano piano, quelle prime esperienze sono diventate normalità. E ogni tanto ti vedevo in giro, eri sfuggente, ribelle, cupa, apparentemente libera e a tratti affascinante. Avevo ancora paura di te, ma forse quella sensazione di libertà che si prova a 16 anni, come quella di sentirsi il mondo in mano tipico di quella fase della vita, mi dava anche altre prospettive dalle quali guardarti. Poi abbiamo iniziato ad incontrarci più spesso, camminando per le vie della città sfioravamo le nostre braccia sui marciapiedi, i nostri sguardi erano più intensi, la tua grande capacità di seduzione aveva colpito la mia più intima curiosità, lasciando ogni volta dei piccoli sassolini dentro di me. Mi sembravi molto forte, sicura di te, eri sempre al centro dell’attenzione, la regina bendata più bella della città. Una sera le nostre strade si sono incontrate in maniera perfetta, gli stessi sguardi, lo stesso fascino, avevo il cuore a mille, ero impacciato, non sapevo come fare, il tutto contornato dal calore della notte. Non avevo più paura. Un istante prima del momento in cui provai a baciarti una vocina dietro di me mi sussurrò: “Non lo fare, stai attento”. Ma la curiosità di appoggiare le mie labbra sulle tue, di lasciarmi andare in un bacio profondamente intenso, di sentirmi libero, presero il sopravvento e lo feci. Il nostro rapporto crebbe in maniera graduale, all’inizio non ci vedevamo tutti i giorni, ma spesso aspettavo con desiderio anche per settimane la sera in cui ci saremo visti. L’ebrezza e la curiosità della fase del corteggiamento avevano lasciato il posto ad un rapporto ormai stabile che si stava consolidando nell’emozione e nelle sensazioni di benessere che avevo quando stavo con te. In quel periodo avevo un altro amore, iniziato prima di conoscerti: era bello, vero, travolgente però a volte ingombrante, a tratti infantile e litigarello, non era come te, così perfetta. Così pian piano quell’ amore si assopì e finì per spegnersi, ma per fortuna avevo te, che mi aiutavi a non sentire il dolore e a non sentire la mancanza, mi sorreggevi e cullavi nel tuo calore, dandomi forza con la tua immensa energia. Eri diventato il mio amore, la mia ragione di vita. Con te mi sentivo forte, onnipotente, nessun’altra mi ha mai dato la sicurezza che mi davi tu. Ad un certo punto però mi venne anche voglia di fare altro, oltre che stare sempre assieme a te. In fin dei conti avevo 22 anni, ero un ragazzo, e volevo vivermi la mia gioventù appieno. Ma tu non mi lasciavi mai andare, eri diventata prepotente, ti arrabbiavi spesso e i litigi crescevano sempre di più. Il pensiero di te era talmente forte che anche in quelle poche occasioni che non eravamo insieme io non riuscivo più a divertirmi o a stare bene. Provavo a non venirti più a cercare ma stavo talmente male che il guinzaglio al quale mi avevi legato mi riportava sempre da te. Quell’ immenso amore che provavo per te stava diventando un incubo. Così andai via dalla città in cui vivevo per non incontrarti mai più, sperando di ricominciare a vivere serenamente in un altro luogo. Ma non fu così. Cambiai molte città ma continuavo a vederti per strada e col passare del tempo il guinzaglio era diventato una gabbia con catene resistenti a tutto. Non sapevo più come liberarmi di te, ero disperato. Non mi lasciavi vivere e i fantasmi che mandavi venivano a bussare alla mia porta la notte, senza lasciarmi dormire. Con gli anni si sono trasformati in scheletri appesi alle pareti della mia stanza dove anche i raggi del sole avevano paura di entrare. Eri l’inferno in terra e decisi che la vita poteva lasciar spazio alla morte perché la disperazione annaffiava le radici della mia anima. La regina bendata era uscita allo scoperto. Ma, un secondo prima di sdraiarmi per terra per sempre, arrivò alle mie orecchie un’altra voce, questa volta però arrivò dal cuore. Mi diceva: “Non può finire così, chiedi aiuto e torna a splendere”. E così alzai il telefono e con coraggio mi feci dare una mano a liberarmi di te che eri entrata nelle mie più intime fragilità facendone la tua casa. Credo tu sia un essere studiato nei minimi dettagli per incanalarsi tra le viscere delle persone. Sembri bella, sicura, forte, affascini e poi, quando meno te lo aspetti porgi l’ altro lato di te, quello subdolo, maligno, cattivo e brutale. Ho sofferto molto la tua mancanza, ma ancor di più ho sofferto nel ritrovare piacere alla vita senza di te. È stata dura affrontare la realtà, la quotidianità senza di te, credevo che dopo di te non sarei più tornato la persona che ero prima di conoscerti. Oggi ho imparato a gioire di un tramonto, a commuovermi nel vedere sbocciare un fiore a primavera o nell’abbraccio di una madre al suo piccolo tesoro. Sono molti anni che non ci vediamo, ti ho amato, adorato e odiato con tutto me stesso allo stesso tempo. Sei stata dentro di me come un figlio sta nel grembo della propria madre, e come un figlio ad un certo punto ti ho sputato fuori dal mio corpo con tutta la forza che avevo e tutta la rabbia e l’odio verso di te. Non avrei mai voluto conoscerti. Addio splendida, terribile regina.
Fedsca
Tratto da “Sanpanews – Voci per crescere” n° 68 – maggio 2022