Non l’ho mai detto

Ero quello che stava sempre zitto, che faceva a botte con chi lo prendeva in giro e che come amico aveva solo chi gli rivolgeva la parola, senza sceglierlo. Poi va a finire che cresci, certe cose non le dici più a nessuno, trovi il tuo modo per stare al mondo. Più hai paura di quella parte di te che non sopporti, più cose sei disposto a fare

Ogni giorno tornavo a casa e mi mettevo a tavola con mamma e nonna. Papà era al lavoro fino a sera, mio fratello non tornava mai a quell’ora. Trovavo sempre la tavola apparecchiata e il pranzo pronto, loro mi aspettavano fino alle due del pomeriggio per mangiare assieme. Era per loro un momento prezioso per chiedermi come fosse andata la scuola, come stavo. Allora non capivo quanto fosse importante. Avevo la roba nello zaino, dovevo fare le consegne entro le quattro, prima della riapertura dei negozi. Non rispondevo mai alle loro domande, mangiavo in fretta e poi con qualche scusa uscivo prima che potessero chiedermi qualcosa. La mia era una tipica famiglia del sud, semplice e con tanti valori. Ad essere sincero sono sempre stato un po’ viziato da mamma e da nonna, in casa non ci è mai mancato niente e io me ne approfittavo. Stavo a casa da scuola, mi facevo comprare tantissime cose, da far vedere agli amici. Finché non ho conosciuto la droga. Posso dire che ho iniziato per scherzo, per far vedere chi ero, poi tutto è precipitato velocemente. In questi anni sto rivalutando molto i pensieri che avevo allora, le cose che non ho detto a nessuno, prima dell’incidente, quando ho perso il controllo. Non sono mai stato il ragazzo più popolare. Né a scuola, né in giro con gli amici. Mi ricordo che già alle elementari guardavo quelli che riuscivano a parlare tranquillamente in classe o durante la ricreazione. Li invidiavo tantissimo. A tal punto che una volta, in preda al panico per un’interrogazione alla lavagna, sono scappato dalla classe. Mi sono chiuso nel bagno, tiravo pugni sul muro e piangevo. Mi facevo schifo. Ero quello che stava sempre zitto, che faceva a botte con chi lo prendeva in giro. Sbagliato, inutile. Era come se fossi difettoso. Non mi sono mai scelto gli amici, ho sempre accettato chiunque mi rivolgesse la parola. Alle medie ero stanco di farmi comprare videogiochi, di chiudermi in camera. Avevo capito che mi piaceva stare nelle compagnie; anche se non parlavo mi piaceva stare con la gente, andare in bicicletta e sgommare, stare tutti insieme al bar. Questo fanno i ragazzi a Messina. D’inverno invece, quando non si va tanto in giro, noi ragazzi mettevamo insieme i soldi per affittare una saletta privata mese per mese, lo chiamavamo “il Circolo”. Da noi lo fanno tutti. Eravamo organizzati, ci avevamo messo dentro la playstation, le casse per la musica, i divani. Passavamo lì le nostre giornate. È frequentando questo posto che ho conosciuto A., il mio spacciatore. Ho sempre avuto la passione per le macchine e la velocità in generale. Parcheggiate al bar sotto al Circolo ce n’erano di bellissime. Tutte le volte che arrivavo le guardavo sempre, ogni volta che andavo via mi avvicinavo ai finestrini per guardare gli interni, il volante e fin dove arrivavano i numeri sul tachimetro. Un giorno ho trovato una macchina nuova, il mio sogno fin da bambino. Una Lancia Thema Ferrari nuova di zecca. Non sono riuscito a trattenermi. Sarò stato mezz’ora a guardarla, quando a un certo punto mi sono accorto che dietro di me c’era un uomo che mi fissava. Era A., ed era il proprietario della macchina. Io mi sono scostato subito e sono salito al Circolo, ma dopo qualche ora, quando sono sceso, A. era al bar di fronte e mi ha visto. Mi ha fatto cenno di andare da lui. Non sapendo che fare mi sono avvicinato al tavolo dov’era seduto, con altri uomini grandi. “Ti piace la macchina? Dimmi ragazzo, vuoi fare un giro?”. Non sapevo cosa rispondere, quelle persone al tavolo mi stavano guardando. Ero stanco di vergognarmi e sì, volevo farlo un giro su quella macchina. A ogni costo. Ho scoperto dopo poco tempo che A. era lo spacciatore di tutto il quartiere, non che ci volesse molto a capirlo. Era sempre pieno di soldi, tutti lo salutavano e lo rispettavano. Mi aveva preso sotto la sua ala. Sempre in giro con lui, con gente più grande. A un certo punto mi ha proposto di fare qualche consegna per lui. Io non parlavo ma ascoltavo molto, avevo già capito a cosa andavo incontro. Molti amici mi avevano messo in guardia. Capivo di essere utilizzato per fare i “viaggi per la droga”, eppure a me andava bene. Io non volevo provarla, non lo facevo nemmeno per i soldi, o per il rispetto della gente. Avevo accettato perché pensavo fosse il mio ruolo. Ero quello che non parlava, quello che incute timore. Un po’ come A., pensavo che forse ero nato per spacciare. Ovviamente facendo quella vita i soldi arrivano. Dopo poco tempo A. mi ha comprato la moto, un enduro senza targa molto potente, che non avrei potuto guidare nemmeno in pista. Io ci andavo per strada. Sapevo che strade dovevo fare per evitare la polizia, con il casco poi ero irriconoscibile, anche se tutti i ragazzi sapevano che fossi io. Sgommando e impennando di fronte ai più grandi, passando tutti i pomeriggi da A., in poco tempo divento grande e smetto di girare con i miei coetanei. Alle superiori ci vado solo per spacciare, nel frattempo arrivano le prime ragazze che s’interessano a me, così mi fidanzo. A un certo punto ho deciso anche di provarla. Volevo capire perché tutti comprassero queste sostanze. Ho scoperto un mondo. Prima le canne, dopo neanche un mese, a casa di A., tiro la mia prima riga di cocaina. Non scorderò mai quel pomeriggio. Mi sentivo alto tre metri. Parlavo senza fermarmi mai. La gente intorno a me mi guardava, io non sentivo niente. Ho capito che quello che stavo cercando da una vita ce l’avevo in tasca, e potevo averne quanta ne volevo. Andava davvero tutto bene, probabilmente sembravo rinato alle persone che non sapevano cosa ci fosse dietro a questo “nuovo me”. A casa vedono solo il lato bello della mia vita, ancora nessuno sospettava niente. Sapevo che prima o poi qualcosa sarebbe andato storto ma continuavo ad andare avanti senza pensarci. Ero diventato una persona a cui non si può dire niente, perché la cocaina aumenta il nervosismo, gli scatti d’ira, le paranoie. Ci sono stati momenti in cui sparivo, per non farmi vedere in condizioni pietose, o serate in cui purtroppo ho esagerato e ho avuto delle reazioni spropositate. A subire tutto questo più che altro erano la mia ragazza, che mi vedeva impazzire spesso e sparire per notti intere, ma soprattutto nonna. Lei era l’unica che si era accorta che c’era qualcosa dietro al mio malessere e proprio per questo cercavo di evitarla quanto più possibile, al punto che spesso rimanevo per giorni a casa della mia ragazza. Ho continuato con questa routine fino a diciassette anni e se avessi potuto avrei continuato ancora, perché ero arrivato al punto di non immaginare più la mia vita senza droga. O forse, come dicono tutti in quella situazione, perché “pensavo di potermela gestire”. Tre del pomeriggio. Quel giorno esco di casa senza salutare. Accendo la moto, metto il casco integrale, controllo lo zaino. Tutto a posto, parto. Prendo la via principale e guardo avanti e negli specchietti, non c’è polizia. Accelero, so dove girare per sparire in due secondi, nel caso servisse. C’è coda, passo in mezzo alle macchine e mi fermo al semaforo. Do due sgasate forti, dalla marmitta esce un rombo assordante. Mi giro, un tipo su una Mercedes mi guarda e sgasa da fermo. Io sorrido. Non può niente contro di me. Il semaforo diventa verde, lo faccio partire per primo e poi accelero, tiro su la ruota davanti, lo supero in un attimo. Curva a destra, un altro semaforo, è rosso. Non riesco a fermarmi. Sulle strisce c’è un signore anziano. È un attimo, il tempo di un flash, eppure sembra che duri dieci minuti. Io e lui che ci guardiamo. Capisco che non riesco a evitarlo, provo a buttarmi per terra con la moto. Lui che mi guarda impaurito e capisce, non riuscirò a evitarlo. Poi il botto. Non capisco niente. Mi alzo, non mi sono fatto niente, il signore è per terra. Faccio tre passi verso la moto, poi mi fermo di colpo. Tutti mi stanno guardando, sanno tutti chi sono. Io che inizio a tremare, che mi dico “che cosa sto facendo? No, non lo sto abbandonando, io non lo farei mai”. Io che mi tolgo il casco. Io che vado dal signore a vedere se è ancora vivo. Con gli sguardi della gente intorno, con tutti che hanno visto, il botto, il casco e quei maledetti tre passi, fatti senza pensare, in preda al panico. Non sono finito di fronte a un giudice. Non so quanti soldi abbia sborsato la mia famiglia, per quel povero signore, né quanta gente abbia parlato con mio padre, mamma e nonna, per far sì che si risolvesse tutto questo casino. Ricordo che dopo quell’episodio ero sconvolto, a tal punto che ho deciso di raccontare tutto alla mia famiglia e alla mia ragazza. Ero un tossico. Per l’ennesima volta gli ho fatto pena, tutti mi hanno aiutato e inizialmente ho accettato quell’aiuto. Ho deciso di mollare quel mondo e di provare a condurre una vita normale. Con un lavoro vero, la mia ragazza e la mia famiglia sempre intorno. Non ce l’ho fatta, dopo qualche anno ho ricominciato e solo dopo tanti momenti brutti, ho deciso di entrare in Comunità. Oggi ho trent’anni e come tante altre persone sto ricominciando da zero, per ricostruire la mia vita e me stesso, un “me stesso” che riesca a vivere in maniera sana ed essere d’aiuto a chi mi vuole ancora bene. È per questo che mi sono chiesto da dove sia partito quel disagio che ho sempre provato. Cosa devo togliere da me stesso, per non commettere gli stessi errori? Ci ho pensato molto e non ho potuto fare a meno di pensare, più che alla mia infanzia, al mio rapporto con A. Ricordo come se fosse ieri il momento in cui sono uscito di casa, dopo l’incidente, per andare a parlare con lui. Avrei dovuto dirgli che mi toglievo dal giro. Non sapevo come l’avrebbe presa, ingenuamente non ci stavo nemmeno pensando. Quando mi ha fatto entrare in casa sua ho scoperto che sapeva già tutto. Dell’incidente, di quello che dicevano le persone, che forse volevo andarmene via, di quello che aveva fatto la mia famiglia per me. Non aveva niente in contrario, anzi aveva capito tutto. Ci siamo seduti in quella casa un’ultima volta e mi ha augurato buona fortuna. Mi ha detto che un po’ era invidioso, che avrei dovuto ricominciare anche per lui. “Io ormai ho cinquant’anni” mi ha detto, “Tu nemmeno sei maggiorenne. Cambia vita e metti la testa a posto, che tanto su questa strada, non troverai niente”. Lo guardavo e mi domandavo tante cose. Mi chiedevo perché una persona che ha tutti quei soldi e quel rispetto deve cercare un ragazzo come me, da prendere sotto la sua ala. Eppure non gliel’ho mai detto. Non c’era motivo di volermi bene. D’altronde anche io avevo fatto uguale. La gente aveva sempre pensato che io non mi rendessi conto, del fatto che spacciassi per assomigliare a lui. Io lo capivo eccome. Eppure avevo voglia di percorrere quel tratto di strada con lui. Ricordo con tanta nostalgia quel momento e le persone che erano con me, che si siano salvati o meno. Vagavamo in cerca di un posto adatto in cui stare, di una storia già scritta da ereditare da qualcun altro, da continuare a vivere, per trovare un senso che forse non c’era. Per convincerci che potevamo anche non vivere.

Camillo

Tratto da “Sanpanews – Voci per crescere” n° 72 – settembre 2022