Il senso di colpa

Mi faccio cinque giorni, mi processano e mi scarcerano con l’obbligo di firma ed esco. Mi viene a prendere la mia ragazza, perché mia mamma, quando ha saputo che mi avevano preso, ha detto ai poliziotti di tenermi il più possibile in carcere. Non si fa sentire per due mesi, poi mi chiama ma sono io che in quel momento non voglio sentirla.

Torno nel mio appartamento: ho l’obbligo di firma, sono senza soldi, la mia ragazza non lavora, se non spacciamo non sappiamo come vivere.

Comincia un periodo difficile. Lei si appoggia alla mamma, ma anche la mamma non ci dà soldi. Dopo un paio di mesi decidiamo di lasciare l’appartamento.

Devo un sacco di soldi al padrone di casa, io e lei litighiamo sempre. Ci lasciamo per un po’. Comincio a stare per strada ma poi vado da una mia amica che mi ospita. In realtà, io devo solo presentarmi in questura alle 6.30 e firmare. Poi posso fare come mi pare. Allora mi riorganizzo con lo spaccio: certo, se mi fermano, è finita. Comunque riparto.

Perché tanto non ho nulla da perdere. Metto insieme due cose e riparto alla grande: vado, faccio un carico con dei soldi che mi prestano. Vendo la roba e restituisco i soldi a chi me li ha prestati.

La ragazza che mi ospita la pago con l’eroina, mentre la ragazza con cui stavo torna da me e io credo al nostro amore. Iniziamo una convivenza a tre e la gente torna da me… per l’eroina. Abbiamo anche dei ragazzi che la vendono per noi. I soldi arrivano e riesco a riprendermi un appartamento con la mia ragazza.

Per un anno e mezzo tutto gira come voglio io. Il telefono suona a tutte le ore, le richieste sono continue. Nel frattempo mi iscrivo al SERT: prendo il metadone e vendo pure quello.

Ovviamente, al SERT prendo contatti anche con altri possibili clienti.

Solo il mio avvocato mi suggerisce di calmarmi: “O la smetti, o te ne vai, o ti arrestano di nuovo”, mi continua a ripetere.

Ma io me ne frego e continuo ad andare avanti così, finché una notte, alle quattro del mattino, suonano alla porta: è la Polizia. A casa non ho  niente, ho un deposito dove la nascondo e una parte la tengo sotto un ponte lungo il fiume. In casa trovano solo bilancini di precisione e qualche siringa. Però mi arrestano lo stesso: ci sono delle indagini, delle telefonate, delle dichiarazioni di qualcuno che conferma che ancora spaccio.

Mi prelevano e mi portano di nuovo in carcere. non chiamo nessuno. Rimango lì due mesi: trovo un sacco di persone che conosco. Entro in una cella in cui c’è gente che usciva anche con me, mi danno le sigarette, mi fanno la spesa. Mi fanno stare a mio agio. Sono imbottito di terapie, poiché sono iscritto al SERT, mi danno il metadone e non vado mai in astinenza. Mi faccio due mesi e faccio una richiesta per gli arresti domiciliari. Viene accettata.

Riesco a uscire e fuori dal carcere trovo la mia ragazza che mi aspetta. Ancora una volta. Lei si aggrappa a me come io a lei. Andiamo a casa e iniziano gli arresti domiciliari che sono una follia: in un appartamento di cinquanta metri quadrati farsi otto mesi di arresti è inspiegabile quanto può farti uscire di testa! Fisicamente sto male: arrivo a pesare cento chili, tra il metadone, l’eroina, ho degli sbalzi incredibili d’umore. E poi sto sempre sul divano.

Con la mia ragazza va tutto a rotoli, lei vuole farsi la sua vita, vuole uscire e io mi sento solo. Per questo le dico che non è più la benvenuta.

Poi, finalmente, il calvario finisce: è il 31 dicembre quando viene la Polizia a notificarmi la fine degli arresti domiciliari.

Esco e mi distruggo tutta la notte. Sono libero, dunque, ma ho l’obbligo di dimora nella provincia di Sondrio. Il primo mese lo passo così. Ma finisco i soldi. Allora ricomincio a fare l’unica cosa che so fare: spacciare.

Come faccio con l’obbligo di dimora?

Rischio! Tanta gente viene da me a chiedermi di ricominciare.

A Sondrio senza di me non c’è piazza di spaccio. Mi sento importante. Però devo capire come fare. Per andare a Milano devo farmi centosessanta chilometri su una sola strada, la tangenziale, ed è rischiosissimo: ci sono sempre posti di blocco ed è facile essere fermati. Allora evito la macchina e prendo il treno e al diavolo l’obbligo di dimora! Trovo un altro contatto a San Donato Milanese. Inizio ad andare lì. Riprendo il giro pian piano.

Mi rimetto insieme ad altri ragazzi, con i quali diamo vita alla nostra associazione.

Cominciamo a spacciare forte. Scendiamo una volta ogni due o tre giorni: prendiamo tre etti di eroina a testa e la distribuiamo ai galoppini.

Mi rifaccio i soldi. Aumentano le persone che spacciano al dettaglio, per noi, e la nostra associazione diventa di dodici persone. L’appartamento non me lo prendo più e ricomincio a farmi ospitare. Vado di casa in casa. Conosco un ragazzo che mi ospita fisso in un appartamento che è una roba scandalosa: in cambio vuole eroina, sigarette, qualsiasi cosa.

Comincia il viavai in quell’appartamento che diventa la mia base.

La gente del palazzo comincia a lamentarsi, la Polizia viene a farei con trolli e allora decido di organizzare il mio lavoro come se fossi un dipendente: spaccio solo dalle 7 alle 12 e dalle 16 alle 20, pausa pranzo garantita!

Ovviamente, appena le cose cominciano a girare di nuovo, si ripresenta la mia ex, con la quale torniamo a vederci, ma questa volta la roba gliela faccio pagare. Sembra che tutto funzioni, quando un giorno vengo a sapere che la moglie di mio fratello è morta. Lo chiamo: sono furioso perché nessuno mi ha avvertito, ma lui interrompe la mia furia perché non faccio più parte della loro vita. È lì che realizzo che sono solo, solo con l’eroina.

Solo. Ma non posso fermarmi a riflettere.

Mi arrabbio, ma continuo. Mi allargo ancora: Corvetto, Rogoredo.

L’eroina la compro nell’hinterland milanese. Si spaccia anche nei campi, a San Donato, ad Origgio, a Rho dove arrivano questi tunisini, ti prendono, ti portano in mezzo a un campo, fuori da San Donato e lì avvengono gli

scambi. Pago l’eroina nove euro al grammo: facciamo bei soldi. Vado avanti così per un anno e mezzo poi mi arrivano in casa alle cinque del mattino: appena mi sveglio, lancio l’eroina fuori dalla finestra. non trovano niente. I soldi li ho nascosti in una valigia piena di siringhe usate. Quando aprono la valigia, vedono le siringhe e mi dicono di spostarle. Io non le sposto e loro lasciano perdere.

Sono un tossico e ai tossici non gliene frega di niente: di lavarsi, di buttare la spazzatura, di rimboccarti le coperte quando vai a letto e anche di buttare le siringhe: quando mi buco, le lancio dal divano direttamente nella valigia che lascio aperta. L’eroina ti toglie tutto: nell’appartamento non abbiamo l’acqua calda, ci sono i fori nelle pareti e tutto questo nonostante i tanti soldi che guadagniamo. Torno a casa solo per farmi e per lavarmi ogni tanto vado a farmi la doccia da qualche amico. Vivo solo per l’eroina e per i soldi. Trascorro quattro anni a fare avanti e indietro da Milano, in giro a vendere. Quando arriva la Polizia,

quella notte, alle 5, anche se non trova niente, mi porta via: scopro che l’indagine dura da un anno, il fascicolo è bello consistente, ci sono anche le foto. È il novembre del 2011. Mi faccio tre mesi di carcere, sempre con gente che conosco, imbottito di terapia, sempre la stessa storia.

Ma qualcosa è cambiato. forse per colpa di mia madre e per quella telefonata di due mesi prima. Squilla il telefono. È mia madre: non so neanche da quanto tempo non la sento. Vuole vedermi.

Io non voglio e non posso; le dico che sto lavorando, in realtà sono in una lavanderia a gettoni e sono strafatto.

Mi dice che in quegli anni si è rivolta all’associazione di San Patrignano che c’è a Sondrio per farsi dare una mano per aiutare me. Attacco il telefono.

Poi ci sentiamo nuovamente: la sua voce è una scossa elettrica, mi sento solo, sono pieno di persone attorno, ma sono solo persone che vogliono venire da me per la roba.

Mi capita di andare al cinema da solo, nessuno si fa sentire se non per comprare la roba. Accetto l’invito di mia mamma: ci diamo appuntamento in una piazza. Sono distrutto: ogni due o tre ore mi faccio una pera; in quel periodo arrivo a farmi sette/otto grammi al giorno. Parliamo un po’ e lei mi dice di questa associazione.

La vedo talmente preoccupata e dimagrita e deperita che non so… per farla contenta accetto di andare a fare questo incontro. Anche se lo faccio solo per lei. Mi fa incontrare questa signora, da cui torno dopo tre giorni ancora una volta: “Sei una merda”, mi dice. Ma io torno, perché ho trovato qualcuno che mi ascolta, finalmente.

Me ne vado di nuovo e comincio a inventare mille scuse per non tornare. Il marito di lei mi viene a cercare dove spaccio, mi arrabbio tantissimo: ma qualcosa mi colpisce ancora una volta. Ha rischiato molto a venire lì, dove mi trovo, ha rischiato. lo mando via e lui mi telefona ancora una volta, chiedendomi di andare a prendere un caffè. Mi dice che sa che mi arresteranno di nuovo. Ed è quello che accade dopo due settimane.

Mentre sono in carcere vengono a trovarmi: “Cosa vuoi fare? Ti hanno sequestrato i soldi. Cosa fai quando esci? È ovvio che torni a spacciare”.

Avrei ricominciato, sì. Anche se ho dei soldi su un conto intestato alla mia ragazza. Forse sono stanco di quella vita: ma che cazzo di vita sto facendo?

Decido di prendere la mano che mi stanno dando e riesco ad andare agli arresti domiciliari a casa di mia mamma. Loro mi propongono di intraprendere il percorso, scalando il metadone. Accetto: farei qualsiasi cosa pur di uscire da lì. Lo faccio solo per liberarmi del carcere.

Quando esco trovo mia mamma, per la prima volta è lei che mi viene a prendere. Stiamo in silenzio. Mi faccio gli arresti domiciliari, comincio ad andare in associazione. Prendo cento millilitri di metadone: una terapia altissima.

Al quarto giorno da mia mamma, sono già al colmo dell’esasperazione: è dura la normalità. Sto impazzendo: arrivo al SERT e incontro due persone che hanno firmato contro di me per l’indagine. faccio un casino: la gente si mette in mezzo, mia mamma si mette a piangere.

Torno a casa, litighiamo ferocemente.

Arrivano i Carabinieri e mi dicono: “O ti dai una calmata, o torni in carcere”.

Preferirei andare in carcere piuttosto che continuare con quella farsa. Ma mi devo calmare. Per mia mamma.

Ci vuole un anno e mezzo per decidere di cambiare davvero. L’ho fatto qui a San Patrignano, dove sono arrivato dopo sei mesi di domiciliari. Qui sono stato in custodia cautelare per un anno. Quante crisi ho avuto, ma è stato il mio responsabile a farmi riflettere, lasciandomi anche la libertà di abbandonare la comunità. La vita è mia. Ma che vita avrei fatto una volta fuori? Alla fine ho detto: “Vaffanculo, dove vado? Se me ne vado di nuovo è una sconfitta! Se esco ricomincio”.

Mi hanno messo al mangimificio: quando ho visto le mucche, la polvere, la puzza, il mangime, me ne volevo andare. Dicono che quello è il settore in cui mettono i peggiori. Adesso non lo cambierei con nulla. Quanti errori ho commesso.

Verso mia madre non so se riuscirò mai a non sentirmi in colpa: mi sento sempre in difetto verso di lei, per tutto quello che ho fatto. Quando è successo quello che è successo con papà, abbiamo sbagliato tutti. Ma anche loro hanno le loro colpe.

Mi hanno lasciato un po’ solo e io avevo dodici anni: per me è stato difficile trovare altre strade. Avevo una rabbia dentro incredibile, perché ero convinto di essere la causa della morte di mio padre. So che non è colpa mia, ma ho impiegato anni a capirlo. Ora di fronte a me vedo la mia casa, che non sarà Sondrio: è un posto troppo piccolo e di me ci si ricorda solo per una cosa.

Sono stato a casa due volte e ho notato delle cose: mia mamma fa fatica a fidarsi di me, ma è normale che sia così. Allora preferisco ricostruirmi da un’altra parte. Sto facendo un corso di marketing e sto andando a Sp.Accio a fare lo stage. Vorrei andare a Milano. Vediamo cosa mi riserverà il futuro.

Tratto dal libro “Una sottile linea bianca – dalle piazze di spaccio alla comunità di San Patrignano” di Angela Iantosca N° 33, giugno 2019
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