Il coraggio di avere paura

Presta attenzione a ciò che ti circonda. Spesso le tue idee arrivano dal paesaggio, dalle cose e dalle persone che hai intorno. Quello che viviamo ci permette di dare una forma alle nostre emozioni, ai ricordi belli e dolorosi che abbiamo, trasformandoli in pensieri, frasi e parole che magari hanno vagato per anni dentro di noi.

Camminavamo per il viale principale senza guardarci.

C’era il sole, era una giornata tiepida, piacevole.

Eravamo soli su questa strada: io, mio padre e mio fratello. I raggi di sole filtravano tra le fronde degli alberi, mentre una brezza tiepida soffiava appena, facendoci sentire leggeri.

Mi sentivo sicuro, era la prima volta che riuscivo a stare con la mia famiglia in questo modo. Niente botte, niente pianti, né urla. Nessun silenzio pesante, non dovevamo per forza dirci qualcosa, per fare finta di stare bene.

D’un tratto però arriva a tutti lo stesso pensiero. Stiamo camminando in una comunità, oggi è il giorno del mio invito. Una giornata dedicata a noi, al nostro rapporto, una volta ogni quattro mesi. Per quanto lo si possa prendere alla leggera, come fosse una giornata di vacanza e gioia, il giorno dell’invito è un momento in cui dobbiamo affrontare delle questioni tra noi. Tra circa un anno e mezzo tornerò a casa, probabilmente.

Nessuno lo impone eppure tutti, nello stesso momento, ci sentiamo in dovere di chiederci cosa ci sia stato di sbagliato.

Perché alla fine sono finito nel mondo della droga? E soprattutto, cosa deve fare ciascuno di noi per evitare che questo possa succedere di nuovo?

Non era la prima volta che rivedevo la mia famiglia, avevo già affrontato questo argomento con loro. Ero stato chiaro nel dirgli che la colpa era mia, totalmente. Ne ero consapevole: ero io ad essermi drogato, non loro. Anche quando ero piccolo sapevo bene dove potevano portare le mie scelte; adesso che la droga non attutiva più niente, poi, ero spesso preda dei sensi di colpa, per quello che avevo fatto nei momenti in cui ero disperato. Ho passato tanti anni a farmi male, senza mai pensare che anche le persone intorno a me soffrivano.

Con le mie azioni le facevo stare ancora peggio, proprio perché mi volevano bene come nessun altro e volevano ad ogni costo che io non soffrissi, o quantomeno che riuscissi a chiedere aiuto. Eppure vedevo che, nonostante le mie parole, loro continuavano in qualche modo a sentirsi in colpa, si chiedevano cosa avessero sbagliato nei miei confronti.

In quel giorno di primavera inoltrata, io, mio padre e mio fratello ci siamo seduti su una panchina nascosta, in quel viale enorme dove non c’era nessuno. Sembrava un sogno e un paradosso. Era un posto perfetto per parlare, calmo e aperto ma anche isolato. Era tutto troppo bello per uno come me. “Posso chiederti una cosa?”. “Dimmi papà, certo che puoi”. “Vorrei che mi spiegassi cos’è che ti ha fatto più male, quando eri piccolo”.

Era sempre così mio padre: diretto, sicuro di sé. Con quella voce calma che ti spiazza, che ti dà l’illusione che lui sappia tutto, o quantomeno che riesca a trovare sempre una soluzione ad ogni tuo problema. Mio fratello mi guarda. Ormai siamo grandi, anche lui vuole sapere, vuole capire. E in uno sguardo capisco che anche lui sta provando quello che sento io. Lui ha passato le stesse cose. Non ci siamo parlati per anni e alla fine abbiamo preso due strade molto diverse, eppure ci capiamo senza nemmeno parlarci.

Hanno tutto il diritto di avere delle risposte ma a me non piace parlare del passato. Non perché mi fa soffrire, non è solo quello. Spiegare il perché di quello che ho fatto, sarebbe come dare un senso alla strada che mi ha portato qui oggi. E non c’è nessun motivo che possa giustificarlo.

“Fammi un favore, dimmelo e basta. Rimarrà qui, non ne parleremo più. Solo questa volta”. “Cosa vuoi sapere esattamente? Cosa ho passato di brutto, mentre facevo quella vita?”.

“Voglio sapere quello che vuoi dirmi. Quello che veramente hai dentro, che ti ha fatto male. So che per te è difficile ma prova a capirmi, io non mi sono mai dato pace fino in fondo. Forse questo mi aiuterebbe. Non farlo per chiedermi scusa, fallo per aiutarmi, e non preoccuparti di quanto mi farà male. Quello è un problema nostro, di me e tuo fratello che ti vogliamo bene. Tu diccelo e basta, se riesci. Se puoi”.

Quello che mi ha sempre allontanato dalle persone ‘normali’, per così dire, è sempre stato questo. Tutti pensano che i rimorsi dei tossici siano, magari, le volte che hanno rischiato di morire, o le cose che sono arrivati a fare. Senza quel muro di gomma tra me e il mondo, ovvero le sostanze, mi sono vergognato molto ripensando a tutti i soldi che ho rubato, ai danni che ho causato con le macchine che ho distrutto, le cose che ho venduto, alla violenza subìta e inferta quando stavo per strada, nelle piazze o in uno di quei posti marci e dimenticati.

Ma è davvero una scusa per stare male, un fantoccio a cui addossare la colpa del malessere. Spesso nel passato ho cercato apposta qualcosa che giustificasse tutto lo schifo che mi facevo, tutta la solitudine che avevo dentro.

Avevo già raccontato queste scene ai miei compagni di stanza. Quella piccola parte di me, però, quei momenti che mi facevano tanta paura, avevo deciso di tenerli nascosti, di non metterli in gioco con nessuno. Era proprio questo che mi stava chiedendo papà.

La realtà è che ci vuole tanto coraggio per provare quella paura.

Forse per questo ho deciso di parlare, quel giorno. O forse è stato grazie a mio padre. Perché non capivo come facesse, proprio lui, a voler portare la luce in quell’unico cassetto che volevo lasciare chiuso, dentro di me. Mi sentivo stupido, ma volevo dirlo. Ad alta voce.

“È stato il silenzio che mi ha fatto male, papà. Perché non capivo che tu avessi i debiti e dovessi lavorare fino a sera, non sapevo che mamma fosse caduta in depressione. E in fondo nemmeno mi interessava. Io tornavo a casa da scuola e sentivo solo silenzio. Sapevo che in frigo c’erano i cordonbleau, quelle maledette crocchette al formaggio che dovevo scaldarmi al microonde. Sentivo mamma chiusa in camera, voi eravate tutti da qualche parte, a fare qualcosa.

E io non volevo starci a casa da solo. Non volevo restare lì a ripensare a quelli di terza che mi picchiavano, né ai miei compagni di classe e al loro modo di guardarmi. Al fatto che non piacessi a nessuno, perché in fondo ero uno sfigato. Non volevo parlarne, sfogarmi con qualcuno, non volevo affrontare il problema. Volevo solo andarmene. Volevo uscire, stare con qualcuno, fare qualcosa e magari divertirmi.

Volevo avere una cazzo di scusa per non pensare, per non sentirmi stupido nel ricordare quando ero piccolo, quando vivevamo tutti insieme nella casa grande dei nonni ed eravamo felici. Non ero più piccolo, quindi non potevo permettermi di pensare a ‘ste robe.

Più ci pensavo e più mi sentivo stupido. Così volevo uscire, volevo spaccare le cose, fare casino, e per farlo andava bene qualunque cosa.

Volevo solo imparare a non pensare alle cose che mi facevano soffrire. Volevo imitare qualcuno che mi sembrava invincibile, per capire come si faceva a diventare grandi, a non pensare più a queste cagate”.

“Sai Fili, io ci penso ancora, mi fa ancora male. Sarà che sono tuo fratello ma ci penso eccome a tutto questo.

E anche se non mi sono mai drogato io queste cose non le ho mai dette a nessuno, una soluzione non l’ho ancora trovata, io sto male tutti i giorni”.

Non so come si mettono a posto queste situazioni. Non so a chi sia giusto dare la colpa, non so come vivono le famiglie normali. In quel momento non capivo nemmeno se fossi pazzo. Sapevo solo che volevo bene a entrambi, e tanto. Guardavo mio fratello, poi ci siamo guardati tutti e tre. Mio padre ha stretto i denti, sapevo che avrebbe voluto chiederci scusa.

Non serviva, non doveva. Mio fratello mi ha guardato, ognuno ha visto se stesso nell’altro. “È mio fratello”, pensavo. Forse è una frase stupida, a me quel pensiero faceva piangere, perché stavo per perderlo. Non sono cose che si possono spiegare.

Non saprei come si fa a creare, questo luogo e questo tempo. Ho provato per una vita a dire queste parole ma non hanno mai avuto senso, né dentro la mia testa né fuori dalla mia bocca.

Non esisteva senso di colpa, in quel momento. Non c’era rancore, nessuna parola in più da aggiungere. C’erano solo tre persone che si abbracciavano in silenzio, stringendosi forte, come se avessero di nuovo paura di perdersi.

Articolo di Filippo, tratto da “Sanpanews-Voci per crescere” N°71, agosto2022
Per scoprire come riceverlo: https://www.sanpatrignano.org/sostienici/sanpanews-voci-crescere