La Sicilia. La mia Sicilia. L’odore della terra. La mia terra. Puoi starle lontano per anni, ma quel filo è lì, indistruttibile e, quando la rivedi, si fa più forte di prima e ti richiama indietro, con la sua ospitalità, i dolci, il pistacchio, i panorami, la natura, il mare. L’odore del mare.
Il sugo di tua mamma, il suo essere protettiva, chioccia, presente. Sono di Paternò, un piccolo paese della provincia catanese. Sono cresciuto con l’Etna vicino e il senso di precarietà che ti dà quel suo essere sempre vivo, acceso, pronto alla guerra. Ho solo ventuno anni e sono qui in Comunità già da tre anni e mezzo. Sono entrato da minorenne. Avevo diciassette anni. Mi hanno portato i Carabinieri. Pensavo di poter decidere se restare o andar via: io me ne sarei andato. Era il 13 agosto e mi avevano strappato alla mia estate siciliana fatta di granite, brioche con il gelato, straniere venute a godersi questo mare, amici e uno sballo continuo. Era il 13 agosto quando sono partito senza salutarla la mia terra. Non pensavo di non rivederla per più di tre anni: credevo che dopo i diciotto anni sarei tornato. Ho cominciato a fumare le canne in seconda media. Stavo sempre in mezzo a gente più grande. Le sigarette già le fumavo da tempo. È vero, ho cominciato prestissimo: siamo precoci in Sicilia! Ho cominciato con mio fratello: stavamo sempre insieme e c’era la curiosità. Mio padre era un ex tossico: non so se questo c’entri o meno.
Qualcuno parla di predisposizione genetica. Io non lo so. So solo che, quando mio padre ha smesso, si è buttato giù. Non lavorava, stava a casa e tutto questo rendeva ancora più difficili le cose tra i miei. Ce l’avevo con lui. Lo odiavo, perché lo vedevo diverso dagli altri padri. Lo odiavo perché, per colpa sua, anche io ero diverso dai miei coetanei. Per questo ho cominciato presto a far danni.
Ho cominciato con le canne; dopo un anno e mezzo ho iniziato a far uso di coca. Lo facevano i miei compagni, lo facevo anche io. Mi piaceva quell’ambiente, la trasgressione. Andavamo a Catania, ma rimanevamo anche a Paternò, il mio paese. Un paese piccolo in cui i posti sono sempre gli stessi: si andava a colpo sicuro per comprare la roba che ci serviva. La prima volta che ho assaggiato la cocaina avevo quattordici anni: era il 2009, mi trovavo in un garage. La mia testa aspettava da tempo quel momento.
Quando è arrivato, non ci ho pensato due volte. La prima volta non ho provato forti emozioni. Ho pensato: «Tutto qua? Ho speso tutti ’sti soldi…». Ma poi, giorno dopo giorno, il suo effetto è cresciuto, mi dava adrenalina.
Di scuola neanche a parlarne: l’avevo mollata dopo le medie, così durante il giorno mi svegliavo tardi, stavo a casa e poi il pomeriggio uscivo per far danni. Avevo quattordici anni, non avevo un lavoro e l’unico modo per poter comprare la roba era fare quello che facevano gli altri: c’era chi rubava motorini, chi spacciava l’erba, chi faceva rapine. E io con loro, perché con la coca più ne hai e più ne vuoi. Arrivavo anche a spendere cinquecento euro a serata. Spendevo quello che avevo in tasca. E allora cercavo di avere più soldi possibile.
Spacciavo erba e facevo qualche furto e qualche rapina. Mi ricordo una volta, avrò avuto sedici anni, ero con un amico completamente fuori di testa. Facciamo una rapina in un tabacchino.
Fuori c’era la volante della Polizia e noi riusciamo a scappare non so come tra i vicoli stretti del paese: avevo il cuore in gola. Ho avuto paura quella volta.
Mia madre si era accorta che qualcosa non andava: aveva già fatto esperienza con papà e poi mi vedeva sempre nervoso, sfuggente. Lei lavorava, portava avanti la famiglia, aveva altri figli, per questo era già un po’ che la usavo quando si è resa conto. Io ho cominciato pippandola, poi per un anno l’ho fumata. Non c’è niente di peggio che fumarla, perché ti arriva dritta ai polmoni, si espande e l’effetto è fortissimo. Non so come spiegarlo: un’onda di piacere che poi diventa un’onda di dipendenza continua che non ti dà più piacere, ma solo bisogno, necessità fisica per non star male. Quando cominci a fumarla è ancora più difficile tornare indietro. La vuoi, la vuoi sempre di più. Io prendevo solo cocaina, non ho mai usato l’eroina: nelle mie zone è anche difficile trovarla. E poi, non usando l’eroina non potevo definirmi tossico. Il tossicodipendente è l’eroinomane, è quello che si buca. Io no, in fondo la fumavo e basta. Non pensavo di essere al limite, di non essere un ragazzo normale.
Ora mi rendo conto che non l’ho vissuta l’adolescenza, che non stavo mai in compagnia di coetanei, che per me non c’era la partita di calcetto. No, non ero un ragazzo normale.
Eh sì, ero un tossicodipendente anche io! Anche i mie fratelli si erano lasciati prendere per un certo periodo, ma poi hanno avuto la forza di uscirne, perché non potevano andare avanti a fare quella vita. Solo io sono rimasto nel giro: non riuscivo a staccarmi.
Non avevo emozioni, non avevo il senso della famiglia, volevo stare lontano da loro, lontano soprattutto da mia madre: ero a disagio con lei perché capivo che capiva.
Allora evitavo di incontrarla, evitavo il suo sguardo.
È stata mia mamma a decidere per la comunità. Era stanca, esasperata, non riusciva a controllarmi, gli stavo completamente sfuggendo di mano. Lei mi aveva detto qualcosa, mi aveva parlato di comunità, ma non ci credevo, facevo finta di ascoltarla, non mi interessava. Poi, quando si parla di comunità dalle nostre parti, l’idea che si ha è totalmente negativa: si pensa che la comunità faccia il lavaggio del cervello, che sia una cosa che non va bene. Le classiche cose che uno dice senza sapere. Io avevo un po’ di fermi, piccole denunce, mia madre aveva parlato con il giudice e a me aveva fatto incontrare una associazione legata a San Patrignano. Non ci credevo che un giorno sarei andato via davvero; sentivo che nell’aria c’era qualcosa, ma non pensavo sarebbe accaduto così presto. Era estate ed ero stato qualche giorno a casa di un mio amico al mare. Poi avevo deciso di rientrare per festeggiare ferragosto a casa.
E invece, il 13 agosto, si presentano i Carabinieri e gli assistenti sociali per portarmi a San Patrignano.
È stato traumatico. Non volevo andar via. Ma non avevo scelta. Forse in quel momento ho odiato mia madre. Ma ora la ringrazio. Quando sono arrivato, pensa anni e uscire. Avrei festeggiato dopo qualche mese la maggiore età, per questo potevo sopportare la lontananza dalla Sicilia. Tanto poi sarei tornato a casa. Ma così non è stato.
Quando il giorno del mio compleanno ho deciso di rimanere e di aspettare il primo incontro con la mia famiglia.
I miei responsabili mi avevano suggerito di non andar via, sarebbe stato inutile quel periodo che avevo trascorso lontano dalla famiglia e così mi sono convinto a rimanere.
Non pensavo che il mio compleanno sarebbe stato così emozionante, vero, pieno di affetto e inaspettato: i ragazzi hanno organizzato una festa e anche questo mi ha aiutato ad andare avanti. Come fondamentale è stato il primo incontro con la mia famiglia.
Quando sono venuti a trovarmi mamma, papà, i miei fratelli e mia sorella, mi hanno visto ripreso. Al mio arrivo ero pallido e pesavo cinquantanove chili. Ora mi vedevano diverso, il vecchio loro ragazzo. Vedevo mia mamma felice e questo mi ha incoraggiato ad andare avanti. Ho cominciato a pormi degli obiettivi. Finché ho deciso di riprendere la scuola. Ho cominciato a frequentare l’alberghiero. Nel frattempo, lavoravo al centro medico, dove sono stato inserito da subito.
Non è stato semplice: io sono abituato ai cavalli, all’aria aperta, alle corse e finire in un luogo chiuso a fare le pulizie è terribile. Stando lì, però, ho avuto modo, ogni tanto, di confrontarmi con chi è ospite del centro medico e ho fatto cose che fuori mai avrei fatto, come assistere dei malati. Ho scoperto nel dare loro un sorriso una grande gioia: a volte li portiamo a pranzo, ogni tanto a sentire musica, li passiamo a prendere per una passeggiata e andiamo la domenica a pranzo e questo per loro è tantissimo.
Con papà ci ho fatto pace? Diciamo di sì. Anche se lui non ha seguito nessun percorso.
Gli voglio bene. È sempre mio padre. Ma è poco fisico, poco affettuoso. Magari a modo suo lo dimostra l’affetto. Ma non arriva. Quando ero fuori, gli ho detto tante volte che lo odiavo, ma ero fatto. Una volta entrato, siamo stati due anni e mezzo senza scriverci. Ad un certo punto i miei responsabili mi hanno suggerito di farlo.
Ma lui non mi ha mai risposto. Una cosa che mi ha profondamente ferito.
Poi, a un certo punto, ha cominciato a rispondermi e a parlarmi di lui e mia madre, del loro rapporto difficile, dei loro problemi. L’ho fermato: era una situazione che non potevo gestire io, non poteva mettermi di fronte ai loro problemi, non dovevo risolverli io. La loro poca unione è stata forse uno dei motivi per i quali ho cominciato a perdermi… non poteva farmi ripiombare in quelle dinamiche! Se avete deciso di rimanere insieme, nonostante tutto, fatelo, ma non coinvolgete i figli.
Perché i figli vedono e sentono tutto e vanno protetti. Gliel’ho scritto e quando sono tornato a casa per la prima volta, dopo più di tre anni, con lui ho avuto un rapporto normale. Anche se uscire dopo tanto tempo non è semplice: non capisci niente, non ti rendi conto di niente, è come se non sapessi più fare neanche le cose più semplici, neanche comprare un biglietto del treno. Avrei voluto fare mille cose, ma la cosa più importante è stata stare con mia mamma.
Con mamma ho recuperato il rapporto.
All’inizio, ce l’avevo con lei che mi aveva costretto a venire qua.
Poi, quando l’ho vista dopo il primo invito, ho capito. Le capisci anche prima le cose, ma non le accetti. Allora mi sono messo con umiltà a costruire un rapporto, passando le nottate insieme a ridere, parlare e a giocare a carte. Ora le dico ciò che penso. Mamma non me la sono goduta mai. Sono consapevole di tutto ciò che ha fatto per noi figli.
Per questo la cosa più difficile, stando qui, è rinunciare a lei. Ma so che è lì che mi aspetta, è giovanissima e abbiamo ancora tanto da raccontarci e io ho tempo di capire cosa farò quando andrò via da qui.
Tratto dal libro “Una sottile linea bianca – dalle piazze di spaccio alla comunità di San Patrignano” di Angela Iantosca N° 31, aprile2019
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