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L’odore della notte

L’odore di Roma, quell’odore che ti fa pensare di poter far tutto. E poi il rumore della marmitta del motorino modificato per andare più veloce. Via della Stazione, giù dritto fino all’incrocio. Semaforo arancione. Curvo rapido a sinistra, il motorino da una parte il corpo che bilancia dall’altra. Via Anagnina. Il vento tira indietro i capelli e mi fa lacrimare gli occhi, il collo è proteso in avanti per spezzare meglio l’aria.

L’acceleratore è al massimo: mi formicola la mano, ma non cedo la presa. Supero una macchina, sorpasso un bus che illumina un suo abitante solitario. Anche lui va nella mia stessa direzione? Il casco dentro il sellino, al sicuro. Uno zainetto ai miei piedi. Lo sento già l’odore della roba verso cui sto correndo. L’umido si appiccica alle braccia scoperte e io non ho pensieri. Un solo pensiero. Via dell’Archeologia. Mi dirigo sicuro al mio solito portone. Le case dei responsabili delle piazze sono illuminate, mentre sotto ragazzetti in cerca di visibilità e di uno stipendio, a turno, aspettano i clienti: indossano tute o un jeans con una felpa, le schiene curve e quel movimento molleggiato del corpo di certe periferie, aspettano con le mani in tasca o fumando una sigaretta insieme a un amico, indifferenti. Il cellulare in tasca e la voce sempre pronta per urlare le solite parole: «Ehi», «Maria», «Amore». E poi fischi che rimandano ad altri fischi. Intorno palazzi, luci basse, portoni che illuminano altri venditori, vedette per strada, scritte sulle pareti, murales che ricordano persone che non ci sono più, gli eroi di quei quartieri. Ormai ci sono. Diminuisco la velocità, la mia mano decelera, freno, spengo, metto il cavalletto e scendo dal motorino.

Eccole lì quelle file rapide e costanti davanti al portone e quella catena di montaggio perfetta: il ragazzo arriva, chiede, il venditore prende dalla tasca o da un nascondiglio o dal portone quello che serve, soldi in cambio di roba, roba in cambio di soldi. Camminano senza vedere: se sono lì è perché ne hanno bisogno. Come me.

Quante volte ho sentito quest’odore, ho visto queste file veloci ma infinite: arrivo e poi trenta, ventinove, ventotto, ventisette, ventisei… ed ecco un altro giovane. Uno va, l’altro arriva, con lo stesso passo, con lo stesso pensiero. Processioni di gente in crisi d’astinenza, di ragazzi arrivati qui prima che comincino quei crampi, quel dolore insopportabile, giovani che vogliono fare serata,

file di tossici senza bisogno di quella maschera quotidiana che indossiamo sempre di padri, impiegati, professionisti, disoccupati, donne, mariti e mogli, fidanzati, madri, insegnanti, pizzaioli, aiuto pizzaioli, medici, pasticceri, lavapiatti, operai, disoccupati, minorenni, con i soldi o pochi soldi: qui siamo tutti uguali, tutti con il contante giusto. Non so da dove arrivano gli altri: compaiono come ombre. Non c’è bisogno che ci presentiamo, i volti cambiano in continuazione. E tutti sappiamo perché siamo lì, a Torbella: per quell’odore, per quel sapore, perché il supermercato è sempre aperto, la qualità garantita e i prezzi accessibili e poi perché dopo che l’hai provata tutto cambia. Che ne sanno gli altri che è impossibile tornare indietro? Io, però, sono diverso, io voglio farla finita. Non è questa la vita che voglio. Tutto cambierà. Ma da domani. Ora è arrivato il mio turno: eccolo il ragazzo, le sue mani, le mie mani. I miei soldi, la sua roba. Mi allontano, salgo sul motorino e corro via verso casa, con una bustina nascosta nelle mutande.

Mi chiamo Filippo e sono di Ciampino. La mia prima canna a tredici anni. Gli amici che fumano, quell’odore che stringe lo stomaco, il ragazzo accanto a te che si gira per farti provare, il sapore pesante nella bocca, la sensazione di staccarsi dal suolo, che tutto andrà bene, che gli amici di oggi saranno per sempre. Sei diverso dopo, hai aperto una porta su una stanza che non conoscevi, una

stanza in cui puoi far entrare qualsiasi cosa. La porta è lì davanti a te, segui i movimenti del braccio: lo allunghi, afferri la maniglia, apri. Dall’altra parte vuoto, benessere, assenza di dolore, onnipotenza, felicità chimica. Poi non basta più. Dura poco quella sensazione. Il dolore torna, ed è peggio di prima. Comincio ad andare ai rave party, quelli organizzati a Testaccio al Villaggio Globale, al forte Prenestino, allo Strike. La prima volta che vado a un rave chi se la dimentica! Da

Ciampino ci dirigiamo a Testaccio: la gente per strada si incammina verso i locali.

Che buon odore che ha di notte Roma!

Sono con un mio amico più grande e questa è la nostra prima sera al Villaggio. Entriamo, timidi,

fumiamo le nostre canne. La musica sale, sembriamo ombre. C’è nebbia nell’aria. Le pareti sono colorate di scritte e murales. Anche noi lasciamo la nostra firma. Qualcuno piscia in un angolo. Poi uno ci passa l ’MDMA: è la prima volta per me e il mio amico. Una piccola pillola colorata basta ad accendermi il mondo.

La butto giù con l’alcol. Spalanco gli occhi. Improvvisamente la malinconia se ne va, sono felice, amo tutti, anche quel ragazzo appoggiato all’albero che si sta sparando qualcosa in vena, ho caldo, non ho bisogno di niente, non ho fame, non ho sete, sono in estasi. Sento il cuore che pompa sangue, mi sembra di percepirne le contrazioni, mi sembra di sentirle tutte, scomposte in infinitesimi di secondo, la musica è più alta, i suoni nitidi arrivano nel mio cervello.

Onnipotenza: così si chiama quello che sento!

Da quel momento comincio a prenderla sempre. Se voglio ballare tutta la notte, è perfetta: quando ho voglia di stare un po’ fuori e un po’ dentro preferisco la Ketamina. E poi acidi, acidi, acidi …

La Ketamina arriva anche a scuola.

Per i soldi non ci sono problemi. Il bello di Roma è che non spendi tanto, perché il mercato è molto economico, soprattutto nei centri sociali, dove i prezzi sono bassissimi. Dopo l’MDMA provo la Ketamina, lo speed e poi l’oppio, sì comincio anche con gli oppiacei. Ma è a quindici anni che

tutto cambia, quando incontro la cocaina: la mia droga. Mi dicono che rischio di rimanerci sotto. E così accade. Io sono debole: appena la tocco comincio a usarla tutti i giorni. A Ciampino gira tanta cocaina e io devo solo trovare i soldi. Comincio a rubare, dentro casa, fuori casa, al supermercato.

In poco tempo accumulo un debito di ottocento euro con gente poco raccomandabile. Cominciano a

cercarmi e io mi barrico in casa.  Sono disperato: vado da mio padre, decide di aiutarmi e sbaglia. Sbaglia perché questi continuano a darmela, perché sanno che qualcuno in qualche modo pagherà. La compro alla Romanina, e poi alle Case Verdi, a Ciampino. Un fortino vicino a via Mura dei Francesi: è l’unica piazza di spaccio. Ma poi Ciampino non basta più e comincio ad andare fuori per arrivare a Torbella, ma vado anche a San Basilio a fare spesa. A volte ho paura, sì lo ammetto. Ho paura quando a diciassette anni mi arrestano: mi prendono per spaccio, perché ho cominciato a vendere il fumo per comprare la cocaina. Vengo condannato a un anno e otto mesi: reato commesso da minorenne e poi processato da maggiorenne, quindi mi danno la pena sospesa. Rimango due settimane in un centro di prima accoglienza. So solo che sto male, che mio padre arriva, mi guarda, non parla: preferirei avere le sue mani addosso. Ma non accade niente, non mi ferma. Non in quel momento. E prima che decida di farlo, conosco l’eroina e comincio a bucarmi. Un giorno non trovo

la cocaina. Allora vado da un mio amico. È steso sul divano con una bacinella accanto piena di vomito. Sono tre giorni che si fa di eroina. Gli chiedo la cocaina e lui mi dice che ha solo l’eroina. Ma io non voglio l’eroina: se prendo l’eroina, divento un tossico. E io non sono un tossico. I tossici

sono quelli che si bucano. Ed io non mi buco. Aspetto un quarto d’ora: la testa frulla, sento brividi nelle guance, la bocca secca, le labbra secche, la pelle mi va a fuoco. Poi un pensiero si fa strada, sottile: in fondo, per una volta, cosa mi potrà succedere?

Allora mi piego e la prendo.

Bastano quei venti minuti per cominciare con l’eroina. Ma lei non è la mia droga. La mia droga è la cocaina che mischiata all’eroina diventa il top. La mia prima volta con l’ago è a sedici anni. L’eroina all’inizio la pippo e la fumo, mentre il mio amico se la fa. Mi fa lui la prima volta: farsi bucare da qualcuno è una cosa che rimane per sempre, è come fare l’amore la prima volta. Poi accade qualcosa. Sto con una ragazza: il primo anno non sa che faccio uso di sostanze, anche se mi buco, non vede i miei buchi. Quando ci lasciamo lei è incinta. Ma io non lo voglio il bambino. Lei, comunque, decide di non abortire, ma poi lo perde spontaneamente e quando mi dice che l’abbiamo

perso, provo per la prima volta una tristezza infinita, un vuoto mai sentito prima: vedo il baratro, lo guardo dentro, ci ficco la testa, il braccio e poi tutto il corpo, fino in fondo, fino a sentire il freddo del fondo, della terra senza vita, dove non c’è luce, dove rimane solo la voglia di morire… sì, morire, perché è questo che sto facendo da anni, sto provando a morire. Allora ci provo definitivamente, nell’unico modo che so fare: voglio morire di piacere, andando in overdose con il mio solito amico. Ci facciamo insieme, un’ultima volta. Poi la luce si spegne e non ricordo nulla. Quando apro gli occhi, sono in ospedale e sono vivo. In quel momento decido di dire basta e di varcare la soglia di San Patrignano: per quel bambino mai nato, per quella infinita tristezza provata.

Perché è ora di camminare verso me stesso.

Tratto dal libro “Una Sottile linea Bianca” – di Angela Iantosca (Perrone editore)