“E tu saresti un campione di Judo?”. Il mio compagno di scuola mi prendeva in giro, spintonandomi in mezzo alla classe, mentre tutti gli altri stavano a ridere e a guardare. “Dai, facci vedere che sai fare!” Così dicendo è scattato verso di me, ha fatto due finte alla Rocky, per fare lo stupido, poi mi ha tirato un pugno dritto dritto in faccia. Il labbro inferiore si è spaccato, macchiandomi di sangue la bocca. Tutti i compagni lì intorno stavano in silenzio, sorpresi. Poi io mi sono messo a ridere, per smorzare la tensione, e si sono messi a ridere anche loro. Come se non fosse successo niente. Quando sono tornato a casa, mia madre mi ha salutato, io sono schizzato in camera mia a posare la cartella e l’ho salutata da lì, senza farmi vedere. “Com’è andata a scuola?” “Bene, bene” ho risposto io, mentre la raggiungevo in cucina. “Vieni, che è pronto… oddio! Ma cos’hai fatto alla bocca??” “Niente mamma, ho sbattuto contro la porta, per fortuna non mi sono fatto niente ai denti!”.
Tutti i giorni la stessa storia. Alle medie facevo judo, mentre tutti i miei compagni di classe giocavano a calcio. Mi sentivo diverso dai miei amici. Soprattutto, avevo paura che gli altri mi vedessero diverso da loro. Anche perché quando questo accadeva loro si comportavano così: scherzavano, a volte esageravano, ma comunque nessuno diceva nulla. Non avrei mai pensato di chiamarlo bullismo, allora, anche se era quello che succedeva. Fin da piccolo ero sempre stato un bambino schivo, già quando andavo all’asilo. Facevo fatica a stare in gruppo. I miei genitori mi avevano sempre spinto ad uscire con altri bambini, a integrarmi. Andavo alle elementari e avevo intorno a me solo gente che mi diceva di stare con gli altri, che non dovevo stare da solo. Non me n’ero mai reso conto, ma questo mi faceva stare male. Avevo la convinzione di non essere capace a stare con gli altri. Ma non riuscivo ad esprimerlo, a spiegarlo a qualcuno.
Così, quando arrivai alle medie, cominciai a conoscere quei ragazzi che facevano i simpatici con tutti, che non ascoltavano le lezioni e facevano casino. Per paura che se la prendessero con me gli andavo dietro, li imitavo e stavo ai loro giochi, senza rendermi conto che loro se la stavano già prendendo con me, e che tutti intorno a me lo vedevano e facevano finta di niente. Era più facile fare così che affrontarli o, ancora peggio, chiedere una mano a qualcuno. Non l’avrei fatto per niente al mondo. Se i miei genitori si fossero intromessi, per me sarebbe finita. Ho continuato così, facendo tanto casino per non venir tirato in mezzo, interpretando un ruolo quando ero in giro. La sola cosa che mi importava era non essere allontanato dagli altri, non essere diverso.
Ho cominciato anche a essere bocciato. Alle superiori la scuola aveva sempre meno importanza nella mia vita e i miei genitori non riuscivano a parlarmi, a tirarmi fuori queste cose. Pensavo soltanto a stare coi miei amici, facendo quello che facevano loro. Così una sera mi ritrovai con uno di loro in un parcheggio. Tirò fuori una canna. Sapevo bene che cos’era, avevo paura, perché sapevo che era sbagliato. Era droga. Eppure quella paura non è bastata a fermarmi, a farmi tirar fuori quello che pensavo. È stato più forte il timore di restare solo, isolato e preso in giro da tutti, come alle medie. Così ho scelto di essere come loro: forte, illegale, così da non farmi più mettere sotto da nessuno. Ho smesso di pensare e ho fumato quella canna.
Da lì la situazione è precipitata. Ho capito come non farmi più toccare dal mondo esterno, come distaccarmi e apparire superiore ad ogni cosa. Spegnendomi, mi sentivo finalmente bene. Non perché mi sentissi bene, ma perché avevo nascosto i miei disagi, e ogni cosa mi sembrava finalmente facile e immediata. Ma non me ne rendevo conto, non mi interessava. Se prima andavo male a scuola, ora non ci andavo proprio. I pomeriggi diventavano serate, i miei genitori non avevano più spazio nella mia vita. La discoteca era diventata casa mia, dove potevo togliere qualsiasi freno ed essere semplicemente un’altra persona. Mi sono fatto tirare dentro da quella vita. Avevo trovato quello che volevo: stavo in mezzo a tanta gente come me e non avevo pensieri. Per continuare a fare quella vita, per non dire di no, sono arrivato a lasciare la scuola, a esagerare con l’alcol, a provare anche altre droghe. Fino a che, proprio come avevo fatto con tutto il resto, non ho conosciuto l’eroina.
Dopo quella riga tutto è cambiato. A quel punto ero totalmente in balia di quella vita, dove niente mi poteva più toccare. Ero insensibile, ma pensavo di essere forte. Continuavo ad andare avanti racimolando i soldi che mi servivano per le mie cose, prendendo tempo con i miei genitori, facendo finta di lavorare. Dopo un po’ di tempo mi arrestarono, mentre andavo in giro con il mio spacciatore. Non sono finito in carcere solo perché era la prima volta che venivo beccato. Sono finito agli arresti domiciliari.
I miei genitori continuavano a parlarmi, a chiedermi di cambiare vita. Io li ascoltavo passivamente, annuivo, ma non riuscivo ad ascoltarli. Non mi fidavo di nessuno, quindi non riuscivo a sentire davvero quello che mi dicevano. Continuavo ad assumere droga grazie alla mia ragazza, che me la portava direttamente a casa. Stavo con lei tutto il giorno, facevo quello che volevo e prendevo quei discorsi dei miei genitori come “il prezzo da pagare” per essere stato arrestato. Ero solo, ma finché c’era lei e la droga io continuavo ad avere l’appiglio per restare aggrappato a quella vita, alle mie amabili bugie. Ma a un certo punto ho dovuto guardare in faccia la realtà. Una mattina si è presentato mio padre, dicendomi che sapeva tutto, di me, della droga e di lei. Quello che non sapevo io era che lei chiedeva i soldi a mio padre per acquistarla. Che stupido che ero stato. Mi ero fatto usare, per finanziare il suo sballo.
Avevo perso tutti. Non potevo nemmeno uscire di casa. Avevo lottato tanto per circondarmi di persone, per non essere da solo, per non mettermi contro gli altri. Alla fine ero restato da solo. Stremato, senza la forza nemmeno di controbattere, ho cominciato ad ascoltare i miei genitori. Ho chiesto una mano. Così un giorno sono tornati a casa dal lavoro e mi hanno parlato di San Patrignano. Un mese dopo sono entrato.
Tratto da “SanpaNews”. Scopri come riceverlo.