Lavorare, produrre, non essere un peso, non ammalarsi, non farsi vedere piangere. Gli uomini s usano e si gettano. La malattia è un problema. Meglio morire che stare su una sedia a rotelle. Non fidarsi di nessuno, non lasciarsi andare mai del tutto: essere vigili, presenti a se stessi. Queste sono le regole della mia casa. Queste sono le mie regole, le regole di Bianca
Vado a scuola, insegno danza, lavoro in un bar e faccio la cubista nel weekend. A casa non c’è nessuno che mi aspetta. Sono sola, figlia di genitori separati, con una madre eterna assente. Non viene mai a vedermi ballare, non le interessano i disegni che faccio, i risultati nello studio. Lei mi invita a cena quando le va per dimostrare il suo affetto. Mi dà cose e pensa di compensare così le sue mancanze. Non è come papà sempre presente, con la sua telecamera con la quale immortala ogni momento. Mi piace papà. È migliore di mamma, almeno così credo. Anche se ha una compagna troppo rigida e poco affettuosa: mi tratta come una Cenerentola in presenza dei suoi figli, mi dice di chiamarla mamma solo quando andiamo al supermercato. Sono figlia di separati e la cosa ha dei vantaggi. Sono stata io a scegliere di vivere con mamma quando avevo dodici anni. Facile capire il motivo: lei me la sarei sempre girata come volevo e poi con lei non ci sono mai orari. Si mangia alle 21.30 o quando capita, mai cose sane, si sta fino a tardi davanti alla TV e quando sparisco di casa per qualche giorno non mi può dire niente. Cosa mi può dire una mamma di cui conosco gli amanti, che mi rende partecipe delle sue tresche, che organizza festini, che mi spegne la canna quando mi trova addormentata nel letto e che mi sistema il tavolino sul quale ci sono gli strumenti che mi servono per drogarmi? La prima canna me l’ha offerta una mia amica il primo giorno che l’ho conosciuta a scuola. Avevo quattordici anni. Io ero la classica ragazza con gli amici sfigati. Io ero quella forte, loro i deboli, io la leader da cui loro dipendevano. In realtà ero sempre sola: studiavo, poi andavo a casa, avevo la mia musica. Sono figlia unica e amo stare da sola. Con i miei non ho mai avuto un gran rapporto. Mio papà se n’è andato quando ero piccola. E mia madre la detestavo. Avevo una rabbia. Forse ce l’ho anche ora. Appena parlo del passato sento che mi risale tutto. Ma perché tutta questa rabbia? (…) Si sono separati che avevo tre anni. Io ho giocato parecchio sulla separazione: soldi doppi, usi uno, usi l’altro. Mia madre cambiava ragazzo continuamente. Cambiavo casa quattro volte a settimana. Ero sempre con lo zaino. A scuola mi portava papà, poi mi veniva a prendere la nonna e, per quanto riguarda i weekend, uno lo passavo con papà, l’altro con la mamma. Non è semplice crescere così. Per questo mi sono dovuta trovare i miei punti di riferimento, come la palestra nella quale sono entrata a otto anni. Ma ovviamente mi sono creata anche punti di riferimento sbagliati… Dopo le canne è arrivata la coca. Avevo sedici anni. Il passaggio è breve. Ma in realtà il mio non è stato un vero e proprio percorso. Ero a casa di uno che aveva trentasette anni, amico di Damiano, il mio ragazzo. Loro tiravano, fumavano. Mi hanno passato il piatto e non ci ho pensato. La prima volta non mi ha fatto niente. Dopo la terza volta ho cominciato a sentire gli effetti. Mi sentivo come se fossi più alta. Avevo questa sensazione. Poi ho notato che mi ammutolivo. Ero ingessata. Non ho mai fatto le cose per sentirmi parte di un gruppo, non mi interessava: io bevevo e mi drogavo da sola. È stata la mia amica Martina, a scuola, che mi ha insegnato tutto: quanto costa, dove si compra, come fare. Poi un giorno è andata in overdose. Quando è uscita dall’ospedale, ha cambiato totalmente vita. Ora ha due figli ed è pulita. Io avevo diciassette anni. Avevamo la stessa età. Ma la sua quasi morte non mi ha fatto nessun effetto. Sai quanti amici morti di overdose ho visto in quegli anni? Ma non mi interessava. Come non mi interessava che molti uomini con cui stavo prendessero la roba. Io la roba ce l’ho avuta sempre per le mani, ma non l’ho mai toccata. Dicevo di Martina: eravamo amiche e qualche giorno prima di andare a San Patrignano, senza dirle niente, la andai a trovare. Che paura aveva di me… lo notai subito! Ma ora la capisco: facevo impressione. Ero magra, si vedeva che non stavo bene. Avevo gli occhi spenti: non c’era più niente in quegli occhi. Dopo quasi dieci anni di vita al limite cosa vuoi che rimanga? Il nulla! Ma cosa cercavo nella droga? Me lo sono domandata a lungo qui, in comunità. Poi l’ho capito: cercavo la forza che non ho mai avuto. Prendevo la coca per trovare energia nel lavoro. Lavoravo troppo: lavoravo, studiavo, facevo la cubista, andavo in discoteca… la coca mi faceva stare in piedi e mi faceva sentire al 200%. Le canne, invece, e usavo perché ero diventata aggressiva. Quando usi la coca, non dormi, diventi violento. La canna ti aiuta a collassare, a non pensare a niente. Era meglio dormire che piangere. Perché fuori ero sempre su di giri, appena rimanevo sola a casa piangevo. La cocaina ti sballa l’umore, non sai distinguere il giorno dalla notte. Quindi, appena avevo tempo, svenivo. Mia madre ha sempre pensato che ce l’avrei fatta. Perché lei sapeva tutto! Abitavamo insieme e capitava che spolverasse l’armadietto nel quale c’erano i miei attrezzi. Me li sistemava pure! Un giorno mi dice: «Quella coca fa schifo». Io le dico che è MD ed è buonissima. Una volta, invece, ricordavo di aver lasciato venti grammi di erba in un paio di pantaloni. Vado a prenderla e non li trovo. Ovviamente aggredisco mia madre, dicendo che l’aveva buttata. Sono stata cattivissima, terribile. In realtà, ero io che ricordavo male il pantalone nel quale l’avevo nascosta. E lei si è anche scusata… (…) Mio padre era forte. Lo sentivo presente. Poi ho scoperto che non era così. Quando si è lasciato con la donna con cui stava quella fredda ha cominciato a giocare. Ha conosciuto un’altra donna e si è ipotecato tutto. Faceva due lavori: uno per pagare i debiti e uno il gioco. I miei hanno contribuito tanto a far crescere intorno a me negli anni una corazza, un muro. Quando ho finito di costruirlo, non sono più stati tanto parte della mia vita. Mia mamma è sempre stata molto libera e io molto protettiva nei suoi riguardi. Organizzava feste assurde e mi mandava al quinto piano a dormire dalla nonna. (…) Sono cresciuta in mezzo all’alcol, all’assenza di regole, agli adulti, in mezzo a una serie di comportamenti che non mi potevano appartenere, vista la mia tenera età. Questo mi ha reso più grande, autonoma, indipendente. (…) La nostra casa era piena di specchi. Li detestavo. Appena passavo davanti a uno specchio piangevo. Non vedevo niente, solo una bambola. Vedevo una che si stava vendendo l’anima per la droga. Perché, con la coca, ho cominciato a conoscere gente più grande. Avevo conosciuto uno che viveva a Verona. Andavamo a Roma, a Lunghezza. Lui aveva degli amici di trentacinque anni. Io ne avevo diciotto. Loro offrivano. (…) Mai vista tanta roba tutta insieme: montagne di roba mai pagata sigarette mai pagate. E io non facevo niente. Mi dicevano solo: «Vestiti bene». Capirai che fatica: tanto ero solo una bambola. Dopo qualche tempo ho capito che lui e la sua donna erano una coppia di scambisti e lei poi vendeva le foto su internet. Io, in tutto questo, ero molto gentile, accondiscendente. Paradossalmente, stavo trovando in loro una famiglia! (…) Ero buona, mi avevano un po’ adottata. Dopo un po’, hanno smesso con gli scambi. (…) Tramite loro, poi, ho conosciuto altra gente e ho cominciato ad andare alle feste nelle ville. Ti vendi per nulla. (…). Ma non ero felice. Come facevo a esserlo? Mi guardavo allo specchio e mi domandavo: «Ma come cazzo sei messa?». Ero arrivata a pesare quarantasette chili. (…) Il limite l’ho raggiunto quando sono andata a Milano. Ero stata selezionata da un’Accademia di Danza, tipo Fame. Eravamo una decina. Avevo trovato l’oro, ma dopo tre giorni mi sono resa conto che ero sempre fatta, non reggevo fisicamente, non ci stavo dentro. E la cosa incredibile è che io andavo nei locali e non conoscevo ballerini, ma pusher, uomini di merda. Per i tossici ero la ballerina e per i ballerini ero la tossica. Non ero più niente. Chi ero? Quando ho detto a mio padre che sarei andata in comunità è cascato dal pero. (…) Sono stata in associazione per un mese a Salerno e poi sono andata a San Patrignano. Avevo una rabbia dentro. Ho pianto ininterrottamente per tre giorni e poi non ho pianto più per un anno. Sono stata sempre molto arrogante, strafottente. E guardarmi indietro e vedere tutto quello che avevo lasciato per stare dentro una comunità accresceva la mia rabbia! Ho fatto fatica all’inizio. (…) Chi entrava aveva paura di me, ma io sono così di carattere, non sono mamma chioccia. Però, quando hanno cominciato a dirmelo, non m’ha fatto bene. Perché se passa l’arroganza, vuol dire che sei arrogante, c’è poco da fare. Ora, dopo più di tre anni, ho anche dei feedback positivi e questo mi fa felice. (…) Sono contenta perché sto vedendo il cambiamento. Ho visto che posso dare una mano agli altri, che posso trasmettere qualcosa. Non sono più solo il mio lavoro e questa per me è stata una liberazione. Fuori ad aspettarmi c’è la palestra, ci sono le mie allieve che continuano a scrivermi. Fuori ci sono Elena e Nicola, della palestra, la mia vera famiglia.
Articolo di Angela Iantosca tratto da “Sanpanews-Voci per crescere” N° 25 ottobre 2018
Per scoprire come riceverlo: https://www.sanpatrignano.org/sostienici/sanpanews-voci-crescere
Tratto dal libro “Una sottile linea bianca – dalle piazze di spaccio alla comunità di San Patrignano” di Angela Iantosca (Giulio Perrone Editore Collana Le Nuove Onde)