Era inizio gennaio, era l’ennesima fuga da qualcosa che sembrava mi rincorresse ovunque. Purtroppo solo dopo anni ho capito che paure e insicurezze non appartengono al posto dove sei ma a chi le porta dentro. Era la prima volta in vita mia che passavo il Natale al caldo dei Caraibi. Ricordo ancora quell’afa che sembrava ti prendesse a schiaffi. Tutte le famiglie ricche tenevano i condizionatori a palla giorno e notte, mentre la stragrande maggior parte del popolo faticava a trovare un pezzo di pollo e un po’ di riso da mettere a tavola. Il senso di vuoto che mi portavo dentro era perenne e nonostante mi trovassi in uno dei posti più belli del mondo, quando la mattina suonava la sveglia era un incubo per me svegliarmi ed affrontare la giornata. Non vedevo l’ora di tornare in Italia per farmi attraversare dal calore dell’eroina. Il rhum e la coca accompagnavano le mie giornate nelle quali rincorrevo sempre quel divertimento e quel piacere che non arrivava mai. Era come riempire sempre una clessidra che si svuotava continuamente. Quella mattina ci alzammo presto. Ero assieme ai miei cugini ed eravamo ancora frastornati dall’alcol e dal fumo. Avevamo trascorso il fine settimana sull’Isola di Coche, un paradiso tropicale come quelli che si vedono sui dépliant delle agenzie viaggi. Un sogno, ma di quel posto ricordo ben poco. Quello che invece non riesco proprio a togliermi dalla mente è tutto quello che è successo e che sarebbe potuto succedere dal momento in cui la nostra auto venne fermata dai poliziotti della guardia civil. Perquisizione. Valigie aperte. Pure quella della mia cuginetta di dieci anni. Aprono la mia, ho il cuore in gola. La trovano. “Esa es marijuana”. Ricordo il luccichio delle manette. L’ansia e il panico ormai mi avevano assalito. La caserma era in mezzo ad una favelas, o ‘rancho’, come lo chiamano in Venezuela. Ci fecero entrare in uno stanzino spoglio. C’era solo un piccolo panchetto buttato in un angolo e un materasso gettato a terra, sul quale era sdraiato un ragazzino, ammanettato ad una ringhiera. Si chiamava Carlos, aveva solo 14 anni e aveva ucciso il violento compagno della madre con un colpo di pistola alla testa. Mi sembrava di essere in un film, incredibile che tutto questo potesse accadere proprio a me. Pensavo ai reportage che documentavano le condizioni dei detenuti nelle carceri venezuelane. Io mi trovavo lì e mi rendevo conto che non sarei mai potuto sopravvivere dentro quell’inferno. Intanto i miei parenti stavano parlando con cinque poliziotti per pagare una specie di cauzione e tirarci fuori da lì. Era passata una mezz’ora circa, che a tutti noi era sembrato un tempo infinito. “Andiamo ragazzi, possiamo tornare a casa”. Lo zio era uscito dalla stanza dei poliziotti, si erano accordati per farci uscire. Salutammo Carlos, era lì steso su quel materasso sdrucito. L’angoscia mi schiacciava lo stomaco. Si era difeso, aveva difeso la madre. Che cavolo di situazione! Ma era anche la vergogna a farmi mancare l’aria. Non riuscivo a guardare mio zio negli occhi. La nostra libertà gli era costata 1250 euro, un sacrificio enorme per lui che al mese percepiva uno stipendio mensile davvero bassissimo. Maledivo quelle sostanze che mi stavano procurando solo guai e così pure alle persone che mi stavano vicino. Ma quel senso di disprezzo verso me stesso non bastò a fermarmi. Ci volle del tempo, tanti disastri, tanti fallimenti, tanti scalini scesi per arrivare sempre più in fondo. E per trovare le ultime briciole di forze per tirarmi fuori da tutto quel casino.
Filippo
Tratto da “Sanpanews – Voci per crescere” N°57 Giugno 2021
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