Mi hanno arrestato il 2 dicembre del 2004. Sono arrivati a casa alle 08.05 con un mandato di perquisizione. Ero nella mia stanza con una tipa e stavo preparando le dosi da vendere. Poi, quei colpi forti alla porta.
La scena d’azione stava per cominciare. Non potevano essere amici, né clienti. Sapevo che erano loro, ma non sapevo che la mia vita, da quell’istante, sarebbe cambiata. Non ho aperto. Sono corsa in camera, ho preso la scatola delle pasticche e il sacchetto con la ‘roba’ e ho lanciato tutto dalla finestra del bagno che dava su un cortile cieco. Tutto fluttuava nel vuoto. Poi la porta sfondata e tutti quegli uomini con le facce di qualcuno che sta facendo qualcosa di pericoloso e di importante al tempo stesso. Era la squadra antidroga. Erano lì solo per me. Prima hanno perquisito il mio
corpo, poi la casa. E più non trovavano niente più sventravano tutto. Materassi, divano e muri. Ad un tratto, un grido: “La finestra, la finestra”. Idiota, non l’avevo chiusa. Era spalancata e non andava bene, non era da furbi. Era dicembre e fuori faceva freddo. Molto freddo. Il caos mi confondeva i pensieri, tutti gridavano mentre un uomo si avvicinava alla finestra con una corda in mano. Lo calano dal davanzale e mentre scende verso il mio destino, un silenzio innaturale invade la stanza. Tutti con il fiato sospeso ad aspettare il verdetto. Dopo un minuto o un secolo, una voce arriva dal basso come un eco lontano. Ma forte e chiaro. “È qui, è qui. L’ho trovata, è qui”. Mentre tutto accadeva, continuava ad arrivare gente a casa e uno ad uno venivano bloccati contro il muro. Poi, mi hanno arrestato. Ed io avevo il sorriso sulle labbra. Rispondevo male, ero sfacciata, irriverente e senza paura. La mia migliore interpretazione. Ero fiera di me. Ero una grande, una pericolosa, una da seguire, arrestare, da bloccare. E ora tutti lo avrebbero saputo. Ero una cosa grossa. Visibile al mondo. Niente e nessuno mi avrebbe piegato. Mentre scendevo le scale, con le mani dietro la schiena, guardavo negli occhi tutti quelli che si affacciavano sui pianerottoli, chi, meno coraggioso, sbirciava dall’uscio socchiuso e quelli radunati sul marciapiede per vedere cosa stesse succedendo. Incrociavo i loro sguardi e pensavo: Guardate, guardate tutti. Io, sono una tipa importante”. Avevo solo 17anni. Dopo 4 mesi il processo. Destinazione: comunità restrittiva.
Qualcuno passa a Lara delle fotocopie da leggere. Per passare un po’ il tempo che sembra così lungo là dentro. Inesorabile. Lara le sfoglia. A pagina sette si parla di un luogo. Un posto grande, pieno di ragazzi. E a pagina nove c’è la foto di un tipo. Un ragazzino che sorride. Ed è bello quel sorriso. Spensierato, libero. Come il sorriso di qualcuno che si sente importante. “Se vuoi andare lì devi aspettare un altro mese. Oppure vai da un’altra parte”. Lara aspetta. Non sa spiegare bene il perché ma è solo lì che vuole andare. Su quella collina da dove si vede il mare. Lara
Tratto da “Sanpanews – 52storie” – n° 12 – Settembre 2017