Nella vita ti trovi spesso ad avere persone che hanno potere su di te. A me è successo tante volte, soprattutto a quattordici anni. Avevo appena iniziato a frequentare la prima superiore, quando mi è stato proibito di uscire di casa
Tornare da scuola. Chiudersi in camera. Studiare, leggere delle nozioni, capire con quale metodo è meglio impararle a memoria. Non servono a niente. Quando ho finito, gioco alla Play, resto in silenzio, non parlo e non chiedo niente a nessuno. Non servono a niente le parole dei miei genitori, il loro volermi bene, lo psicologo da cui mi mandano. Quella rabbia mi permetterà di restare indifferente, di andare a letto arrabbiato con il mondo. Di svegliarmi in silenzio la mattina dopo, farmi lo zaino e passare un’altra giornata in mezzo a migliaia di persone che mi fanno sentire ancora più solo. Da queste poche parole posso sembrare pazzo, anche se, quando hai quattordici anni le persone cercano ancora di capire quale problema ci sia dietro un comportamento del genere. Personalmente io avevo deciso di restare da solo. Volevo farmi male. Perché in questo modo facevo star male chi mi voleva bene, quelle persone con cui era inutile parlare. Perché tanto hanno sempre ragione loro, tanto devo fare quello che dicono loro. Era appena iniziata l’estate quando i miei genitori scoprirono che facevo uso di droga. Avevo appena iniziato, fumavo qualche canna e con gli amici facevamo danni: rubare motorini, entrare nei posti abbandonati, spaccare e dar fuoco alle cose. Forse eravamo arrabbiati, ma anche quelli più grandi facevano così. A differenza dei miei amici, però, io non venivo da una famiglia disastrata. In casa mia non era tutto perfetto ma i miei genitori mi stavano dietro, e quando mi scoprirono, presero subito provvedimenti. Cambiai casa. Andai a vivere in un altro quartiere, da mio padre, che mi controllava a vista e che mi accompagnava ogni volta che volevo uscire. Non ero in punizione ma la mia vita era finita. Niente più libertà, amici, divertimento. Ma non erano queste le cose che mi mancavano. Cosa mi faceva male? Non potevo più essere quella versione di me, libera, spavalda. Quel Federico che poteva decidere di sbagliare. Allora non lo capivo, volevo solo tornare indietro, oppure farmi del male. Ho fatto questa vita per due anni, interpretando un ruolo imposto. Ho fatto amicizia con gente di cui non m’interessava, ho raccontato altre cose di me allo psicologo, per “depistare” la sua lettura degli eventi. Sembravo “sano”, per così dire. In realtà ero solo arrabbiato. Forse si vedeva anche allora. Sicuramente si è visto quando sono tornato a fare la vita di prima. Quello sì che è stato un bel botto. Ho colto la palla al balzo, una litigata forte tra mia madre e mio padre, per gli assegni di mantenimento. Sono riuscito a tornare a casa di mia madre, nel mio vecchio quartiere. In poco più di due settimane sono riuscito a distruggere tutte quelle scelte giuste che mi erano state imposte. Ho rubato a casa di tutti gli amici, allontanandomeli, non stavo mai a casa. Trascorrevo tutte le notti sulle panchine della piazza, vestito largo, ho subito chiesto ai miei vecchi amici come si faceva a spacciare. Serate, limiti da superare. In poco meno di un anno sono arrivato all’eroina. E non ne avevo per niente paura. Non era cambiato niente ma io ero più grande, più arrabbiato. Non volevo più sentire le imposizioni di nessuno. Né dei carabinieri, né dei miei genitori, o degli insegnanti. Ho mollato la scuola proprio per questo. Dicevo sempre che avrei trovato un bel lavoro, invece spacciavo. Non volevo più niente di buono intorno a me. Non volevo uno sport, un futuro, un lavoro, o della gente che mi volesse bene e che mi dicesse cosa fare. Volevo essere lasciato in pace. Mi sono riempito la vita di tante piccole cose belle, come la ragazza, il cane, i vestiti, le amicizie. Era come provare agli altri (ma soprattutto a me stesso) che in fondo andava tutto bene. Non era così. La realtà la vedevo solo quando arrivavo al limite. Dovevo litigare, piangere e fare a botte, per capire che non c’era via d’uscita. Avevo distrutto ogni rapporto, vivevo pensando che in fondo tutti mi odiassero e sfogavo quella rabbia su chi provava a farmi tornare indietro. Mi ricordo una sera, mio padre stava tentando di non farmi uscire di casa. Molte serate le passavamo a litigare, sapeva che stavo andando a farmi. A un certo punto ho cominciato a riempirlo di pugni, volevo restituirgli tutte le botte che avevo ricevuto da lui quando ero piccolo. Lui a un certo punto mi ha preso, semplicemente, come se fossi un gattino, e mi ha bloccato. Stringeva sempre più, sentivo la sua forza, le ossa mi facevano male. In quel momento mi rendevo conto di essere un ragazzino di cinquanta chili, che si era scagliato contro un uomo adulto. Solo quando mi ha lasciato, quando l’ho visto piangere come un bambino, mi sono reso conto della sua disperazione. Io ero un tossico e lui, con tutta la sua forza e la sua intelligenza, non era riuscito a fermarmi. La prepotenza degli altri mi ha sempre fatto molto male. Rabbia che sale, che ti si attorciglia intorno allo stomaco. Ricordo che digrignavo i denti mentre piangevo, da solo, mi tiravo i pugni in testa, e avrei avuto voglia di tirarli a chi m’imponeva le sue decisioni. Alla fine, non potendo far nulla, mi facevo del male. Era come se quel male potesse essere, prima che mio, anche di tutti quelli che pensavano di averci capito qualcosa e che mi legavano alle loro scelte. Si può imporre un concetto a un’altra persona? Con la forza, fisica o psicologica? Probabilmente no. Se oggi mi trovassi dall’altra parte non saprei come comportarmi. Ho avuto la fortuna di fermarmi presto, per la paura di andare in carcere. Ho accettato di farmi aiutare e sono entrato a San Patrignano. Purtroppo ho imparato a mie spese, che l’unico modo di sfuggire a un fantasma è “passarci attraverso”. Quello che intendo dire è che, finché non affronti un problema, la vita trova sempre un modo creativo di metterti alla prova. Ho dovuto accettare il potere che gli altri avevano su di me, perché entrare in Comunità è un po’ come tornare bambino. Devi chiedere il permesso per fare tutto, confrontarti per ogni scelta, anche banale. Non sei mai solo e spesso fai quello che ti dicono gli altri. All’inizio è stato un inferno. Non riuscivo proprio a vedere il buono dietro alle regole e alle imposizioni, sono dovuto andare avanti a testa bassa, continuando a pensare “un giorno tutto questo finirà”. Non ho capito niente di quello che mi dicevano gli altri finché non sono stato io a dover “seguire” un altro ragazzo. Qui in Comunità, “seguire” significa stare insieme a una persona appena arrivata: andare in giro insieme, confrontarsi su ogni cosa. Essendo qui da più tempo sarei dovuto essere io a dare una mano a lui. Dopo poco tempo mi sono reso conto che non era così facile dare una mano a qualcuno. Ogni volta che dicevo qualcosa ero arrogante. Ogni volta che avevo torto, questo ragazzo me lo faceva pesare, quando invece aveva ragione lui dava di matto e io pensavo di fargli più male che bene. Come si aiuta una persona che decide di sbagliare? Anche oggi non penso di avere una risposta. Ma quello che ho capito è che nei consigli, nelle imposizioni di chi ti aiuta a vivere c’è un grandissimo amore. “Non devi fare questo”. “Non puoi farlo da solo!”. “Ti sembra una cosa giusta? O lo puoi fare in altro modo?”. Deve volerti molto bene una persona, che al posto di farsi i fatti suoi, decide di mettersi tra te e il male del mondo, anche a costo di litigare. Quanto male ho fatto a queste persone, quante situazioni ho esasperato. Mi sentivo soffocare da un salvagente. Oggi che mi pento, che vorrei tornare indietro e cambiare le cose, mi rendo conto che questa cosa non riguarda solo me. Nella vita ci si trova spesso ad avere persone che hanno potere su di noi, o al contrario, ci viene affidato un potere sugli altri. Non ho una risposta. Forse scrivo perché, crescendo, è così facile dimenticare sensazioni che oggi riusciamo a interpretare e a collocare, ma che una volta ci spingevano alla pazzia. Ci vuole coraggio ad ammetterlo. E forse parlarne ad alta voce è il vero atto di forza.
Articolo di Fred Tosse tratto da “Sanpanews-Voci per crescere” N° 63 dicembre 20
Per scoprire come riceverlo: https://www.sanpatrignano.org/sostienici/sanpanews-voci-crescere