Sono proprio io quando gioco

Perché non posso giocare alla play? Perché se vado al parco a giocare a calcio, mia madre e la mia insegnante mi dicono ‘Bravo Michele’, mentre se sto quattro ore a giocare a FIFA con il joystick in mano, sono un disagiato?

L’ho sempre pensato ma non l’ho mai detto a nessuno. Io sono un “nerd”. Sono un ragazzo del 2006 come tanti altri. Non sono l’unico che dopo la scuola ama immergersi nel proprio mondo, nelle proprie storie. I videogiochi e internet mi fanno stare bene e sinceramente non mi sento diverso da una persona che torna a casa e si mette a leggere un libro. Anche lui per qualche ora entra in un altro mondo, diverso dal suo, come faccio io. Solo che agli occhi degli adulti se leggi, sei bravo. Io invece sono uno che non va bene. È vero, non ho tanti amici. Sto sempre con quei tre ragazzi con cui dalla prima media condividiamo tante cose. È con loro che riesco a parlare, ad essere me stesso. Non riesco e non ho voglia di essere altro, non sarei io in altri contesti. Io non voglio essere conosciuto da tutta la scuola, non pubblico ‘cose’ su Instagram. Non sono come quelli della mia scuola che possono parlare quando vogliono, anche contro i professori. E sinceramente mi sento meglio di loro. E finalmente è arrivato il momento di dimostrarlo. Da quando è arrivato il lockdown la vita è cambiata per tutti. Non parlo della crisi economica, ma di quello che fai materialmente durante il giorno. Chi eri tu, prima? Chi eri per gli altri e per te stesso? Soprattutto, chi sei adesso? Chi sei se nessuno ti può celebrare, nei corridoi o in classe? Cosa fai nelle tue giornate? Agli occhi della gente sarò anche uno sfigato, ma di queste cose non mi è mai interessato. Quando siamo stati costretti a casa avevo le mie valvole di sfogo, avevo i miei amici, amici veri. Non ci siamo mai mollati. In quel momento ho pensato davvero di avere ragione io. Qualche giorno fa abbiamo fatto un incontro con i ragazzi di San Patrignano, con questo progetto WeFree. Dovevamo parlare di droga, non è che mi interessasse più di tanto, però comunque ho ascoltato. A un certo punto stavamo parlando, non di droga, ma di tutte le cose della vita che erano mancate a questo ragazzo, Federico, che era entrato in comunità a vent’anni. In classe c’era un’atmosfera insolita, mi sono sentito in grado di parlare liberamente e forse per la prima volta nella mia vita l’ho chiesto proprio a lui. Che cosa ci fosse di sbagliato nei videogiochi. “Non lo so, Michele. Io non so tutto. Magari, i tuoi compagni che giocano a calcio, vogliono anche stare con qualcuno… magari per qualcuno di loro, il calcio non sarà solo la passione momentanea: qualcuno di loro vorrebbe diventare un calciatore, si allena ogni giorno per realizzare il suo sogno. Quando gioca a calcio, lui sta bene. Io ce l’avevo una cosa così, però l’ho abbandonata, come ho buttato via tante cose importanti della mia vita. Per te sono importanti, i videogiochi? Ma soprattutto”, mi ha chiesto Federico: “Quando senti di avere una giornata no, quando hai delle sensazioni di cui fai fatica a parlare… se giochi ai videogiochi… dopo, stai meglio, peggio o uguale a prima?”. Non ci avevo mai pensato. Non avevo mai visto la mia passione sotto questo punto di vista. Non ho più parlato dopo, ma ho iniziato a pensarci seriamente a questo. Per me i videogiochi sono importanti e sì, mi piacerebbe diventare un campione, siamo nel 2021, mi piacerebbe lavorarci. Perché quando gioco mi sento proprio io. Però Federico aveva ragione. Non ho mai usato i videogiochi per stare con qualcuno, non mi sono mai allenato seriamente. Forse è proprio per questo che mi sono sempre tenuto dentro tutto, restando arrabbiato con le persone diverse da me. Ho pensato tante volte di impegnarmi, di avere il coraggio per costruirci un sogno. È una cosa fuori di testa ma voglio provarci. Voglio costruire una squadra con i miei amici. Voglio che questo diventi per me qualcosa d’importante, che mi faccia stare bene. Non so se i miei genitori capiranno che dovremo allenarci insieme, che dovrò avere una vita regolare per giocare bene. Questo vuol dire fare dei progetti, studiare, incontrarmi più spesso con i miei amici, parlare con loro, fino a capirci senza parlare. E magari potrei veramente arrivare a dire a Federico: “Sì. Quando gioco lo faccio con le persone a cui voglio bene e mi ci sono impegnato tanto. Più di quanto abbia mai fatto. È una cosa che mi fa stare bene. Sono proprio io quando gioco con i miei compagni”.

Articolo di Michele tratto da “Sanpanews-Voci per crescere” N° 58 luglio 2021
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