“A’ Katiù, e lasciali litigà, lèvate da lì!”. Questa è la frase con cui mio fratello esordiva ogni volta che i miei genitori litigavano. Mio fratello era più bravo di me: lui, per non vedere la violenza, si chiudeva in camera. Io, invece, non riuscivo a rimanere indifferente, mi mettevo sempre in mezzo a loro e facevo da scudo a mia madre: sentivo dentro di me che avrei dovuto proteggerla
A casa mia i litigi erano frequenti. Accadeva soprattutto quando mio padre era ubriaco e si parlava dei soldi che mancavano. Mamma era l’unica che lavorava e quando tornava, le discussioni erano sempre le stesse. E così si arrivava sempre alle mani. Bastava una parola per trasformare tutto in un incubo, da cui però non riuscivo mai a distaccarmi. Io vedevo quanto lei volesse bene a papà, ma anche quanto ormai fosse rassegnata e succube e questo non lo tolleravo. Tutto ciò succedeva perché a casa non eravamo abituati a parlare, si alternavano urla a grandi silenzi. Io però la mia dimensione l’avevo trovata, fin da bambina: mi chiudevo in camera e stavo ore davanti alla televisione a mangiare. Mangiavo anche la notte, rubavo le cose dalla dispensa e tutti in casa vedevano, ma nessuno mi fermava. Neppure mamma. Del resto anche lei faceva uguale quando era depressa. Solo mia nonna mi nascondeva le merendine e mi sgridava a suo modo, ma almeno ci provava. Non ho mai avuto una gran voglia di studiare, ero circondata da tanti amici, ma nemmeno con i vicini o quelli del quartiere riuscivo a parlare di quello che mi succedeva in casa: eppure tutti sapevano! Mi vergognavo della mia famiglia, e non parlavo di quello che avevo dentro perché non lo reputavo importante. Per me quella era la quotidianità, era una cosa normale. Sapevo, dentro di me, che c’era qualcosa che non andava, ma allo stesso tempo ero consapevole del fatto che non sarebbe mai cambiato nulla. E quando pensavo tutte queste cose e mi arrabbiavo, me la prendevo con me stessa, riempivo il vuoto che avevo dentro mangiando tutto quello che trovavo. Alle medie poi qualcosa è cambiato. Grazie alla mia statura sono sempre sembrata più grande della mia età, e questo mi ha permesso di ritagliarmi un ruolo ben definito a scuola: anche se facevo parte del cosiddetto “gruppo degli sfigati”, nessuno si è mai permesso di bullizzarmi o di mettermi i piedi in testa. Io ero quella che incuteva timore, che faceva paura, mi rispettavano tutti. Iniziavo anche a essere “reclutata” da ragazzi più grandi per fare risse, e questo modo di sfogare mi piaceva: ragione o torto, non mi importava. Con loro iniziai anche a fare la ‘vita da grandi’, a bere e a uscire la sera; mi avvicinai a tutte le sostanze, prima le canne, poi l’md e la coca e iniziai a frequentare feste in centri sociali. Ed è proprio in uno di questi che incontrai il padre di mia figlia. Non so dire cosa mi abbia attirato di lui: era egiziano, faceva il buttafuori nei locali, non era proprio il tipo di persona che la gente vede al fianco di una quindicenne. Per me invece era un uomo vero. Lui mi ha subito notata, e voluta: mi ha avvicinato con la droga, ma in quel momento non importava. I suoi modi gentili e premurosi mi hanno stregata fin da subito, era la figura di riferimento maschile che mi era sempre mancata. Così ci siamo iniziati a frequentare e da lì non ci siamo più lasciati. Decisi anche di scappare da casa per andare a vivere con lui: avevo solo sedici anni quando è successo, e dopo un anno è nata nostra figlia A. I primi tempi sono stati bellissimi, eravamo una bella coppia, anche se fumavamo tante canne. Poi le premure e le attenzioni sono andate scemando, abbiamo iniziato anche a fumare cocaina. In più lui beveva tanto: una birra tira l’altra, e alle quattro del pomeriggio tornava a casa barcollando. Non ci potevo credere: ero di nuovo in casa con una persona ubriaca, che se la prendeva con me e con cui arrivavamo sempre alle mani. Davvero stava succedendo tutto questo? Stavo facendo un tuffo nel passato. Non so perché stavo ripresentando a me e ad A. lo stesso scenario da cui ero voluta scappare anni prima: avevo fatto di tutto per cercare di cambiare, o almeno questo era quello che pensavo. La paura di essere di nuovo abbandonata e non considerata mi aveva fatto scendere ancora a compromessi, stavo ancora accettando quegli atteggiamenti. Non volevo che mia figlia venisse su come me, non volevo che anche lei facesse da scudo per difendermi dalle botte: invece, a quel punto, ci eravamo già arrivati. Anche lei stava proteggendo la sua mamma. Ho provato diverse volte a sfuggire da quella situazione; prima tornando a casa dei miei, poi trasferendomi in casa famiglia. Poi abbiamo affittato un appartamento, ma in una zona malfamata di Roma: lui lavorava e si drogava, riuscendo a fare una doppia vita, mentre io dovevo occuparmi della bambina da sola. Una volta portata al nido, avevo la giornata libera, ma non avevo nessuno. Mi sentivo sola. Così, ho iniziato a stare in giro e a drogarmi con uomini molto più grandi di me: ripensandoci adesso, in quel periodo feci tutto quello che non avevo potuto fare in quegli anni, in cui avevo fatto solo la mamma e la moglie. Ma quello era un ruolo che a una diciottenne non poteva calzare: sollevata da questi obblighi, avevo finalmente ritrovato quel senso di spensieratezza e libertà che mi era sempre mancato. Non ce la facevo più. I sensi di colpa mi divoravano. Lasciavo tutti i giorni A. a casa di qualcuno e quando tornavo a casa lui – preso dalla gelosia – diventava una furia. Dopo varie segnalazioni ai servizi sociali sono riuscita a chiedere la separazione, a cui lui però reagì tentando il suicidio. Questo suo gesto mi fece prendere coraggio e, un po’ per stanchezza e un po’ per rassegnazione, decisi di chiedere al giudice di indicarmi la Comunità più adatta dove sarei potuta entrare con la bambina. A dire il vero, non avevo voglia di smettere di drogarmi, volevo solo evadere da quella situazione: lui sarebbe stato messo in una struttura psichiatrica, quindi io sarei stata finalmente libera di scegliere. Così, nel 2019, sono entrata in Comunità con A.: io avevo 25 anni e lei solo cinque. L’inserimento non è stato semplice: io non ero abituata a occuparmene, non sapevo cosa volesse dire avere orari, responsabilità, impegni o regole. Non ero capace a darle affetto, non ci parlavo, ero solo abituata a terrorizzarla e andavo avanti con imposizioni e minacce cui lei reagiva con capricci e pianti disperati. Si vedeva che non era una bambina come le altre; aveva tante cose dentro che non esternava, percepiva il mio malessere e cercava sempre di attirare la mia attenzione con gesti estremi. Spesso sentivo la necessità di starle lontana: ero affaticata, tornavo a casa e non avevo voglia di starle dietro. Così, la lasciavo alle altre ragazze, mentre io mi rifugiavo in quella depressione che aveva sempre fatto da protagonista nella mia vita. A un certo punto, le difficoltà che riscontravo nell’educarla e le mie mancanze come madre hanno iniziato a pesarmi. Ho fatto fatica a trovare la chiave per fidarmi delle persone perché ero io la prima che non si fidava di sé stessa. Stavo spesso da sola e non sempre ho fatto delle scelte giuste; questo mi ha portato a riflettere e a capire, finalmente, quanto invece sia importante la parola e la comunicazione. Inoltre, non pensavo che ci fosse un modo giusto o sbagliato per allevare un figlio: pensavo che tutto si potesse acquisire solo con la pratica e con il tempo, che ci fosse un modo universale. Faticavo ad accettare i suggerimenti esterni mentre poi ho capito che accettando i consigli e aprendomi con le persone avrei potuto pian piano prendere in mano le redini della mia vita, smettendo di vivere in balia degli eventi. Adesso posso dire di sapere cosa voglio per il mio futuro, e per mia figlia: ho da poco iniziato un corso in Comunità come assistente socio sanitario, mi sto realizzando come donna in un settore in cui non avrei mai pensato di poter lavorare, essendo sempre a contatto con persone che soffrono e a cui devi dimostrare affetto e pazienza. Come madre sto faticosamente riacquistando la fiducia di A., so di essere il suo unico punto di riferimento e mi sento bene quando riesco a dimostrarle l’amore che provo. Parola d’ordine: comunicazione. Per me questo adesso è fondamentale: è un cambiamento interiore a cui non avrei mai pensato di arrivare. E ne sono fiera.
Articolo di Valentina tratto da “Sanpanews-Voci per crescere” N° 60 settembre 2021
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