Candidato al Premio Nobel per la Pace nel 2020, Nicolò Govoni parte giovanissimo per la sua prima missione di volontariato. Da allora il suo impegno come attivista dei diritti umani è cresciuto riuscendo a cambiare la vita di migliaia di bambini.
L’impegno di Nicolò Govoni, a sostegno di bambini ai quali guerre e povertà negano l’infanzia, inizia all’età di vent’anni. Da allora Govoni, classe 1993, non si è più fermato diventando uno dei più importanti attivisti per i diritti umani del Paese. Nel 2018, insieme ad altre due volontarie, Sarah Ruzek e Giulia Cicoli, fonda la Onlus “Still I Rise” con la quale apre scuole per i bambini più vulnerabili tra Grecia, Turchia, Siria, Kenya, Repubblica Democratica del Congo e Colombia. Come nasce l’impegno come attivista per i diritti umani e cosa ti ha spinto a partire per la prima missione in India? Nasce dopo un’adolescenza ribelle e turbolenta, che mi aveva cucito addosso un senso profondo di delusione e fallimento. Non sapevo ancora chi ero e cosa volessi fare, ma di sicuro rifiutavo di riconoscermi nel fallito che ormai tutti intorno a me vedevano: quando dopo una delusione amorosa ho toccato il fondo, ho deciso di reagire. Ho scelto allora di partire come volontario in un orfanotrofio di un piccolo villaggio dell’India rurale: sarei dovuto restare solo pochi mesi, ma alla fine sono diventati quattro anni. Lì, insieme ai bambini ospiti della struttura, è scattata in me una scintilla, che mi ha fatto capire quale fosse la mia strada: aiutare gli altri, ma soprattutto non arrendersi alle circostanze e fare tutto ciò che fosse in mio potere per cambiare ciò che non va. Cosa ha rappresentato nella tua storia la prima missione, cosa ti ha insegnato e in che modo ti ha cambiato? È stata il punto di svolta, il momento in cui ho compreso quale fosse il mio posto nel mondo. Sono stato fortunato a capirlo all’età di 20 anni, perché mi ha permesso di indirizzare ben presto tutta la mia vita verso quella che ho capito essere la mia missione. L’India mi ha insegnato che ognuno di noi può fare la differenza, se davvero lo vuole, ma anche che per farlo è necessario non improvvisare, bensì formarsi continuamente per essere sempre la versione migliore di se stessi, da mettere con coscienza a servizio degli altri. Solo così è possibile sperare in un vero e costruttivo cambiamento. In che condizioni vivono i bambini nei campi profughi nati tra Grecia e Siria? Sono bambini a cui purtroppo è stato tolto il sostantivo “infanzia” delle loro vite. Nei campi sulle isole greche hanno vissuto per anni in mezzo alla violenza e in condizioni degradanti, tra spazzatura e topi, con cibo scarso e di infima qualità, e assistenza medica quasi inesistente. Ora a Samos è stato aperto un nuovo campo, che vanta servizi inesistenti nell’hotspot precedente: peccato però che sia recintato come se fosse una prigione e inaccessibile agli esterni e alle organizzazioni umanitarie. I bambini profughi e le loro famiglie continuano a essere in un certo modo criminalizzati per una condizione che non dipende da loro. In Siria la situazione è sempre più drammatica: sono aumentati i bombardamenti e nei campi profughi la gente non ha nulla. I bambini qui non hanno conosciuto nient’altro che la guerra da quando sono nati: è terribile e impensabile che continuino a esistere e ad essere alimentate queste situazioni, nell’inerzia della comunità internazionale. Cosa rappresentano per loro le scuole di emergenza create nei campi da Still I Rise? Sono oasi in cui possono ritornare bambini e adolescenti: le nostre scuole rappresentano un porto sicuro e la speranza di riappropriarsi del proprio futuro e della propria esistenza. Tengo a precisare che questi centri sono sì di emergenza, ma anche di riabilitazione: il nostro obiettivo non è intervenire solo in una situazione di crisi, ma creare le basi per il loro futuro. È riabilitazione perché prepariamo i bambini, assenti dal circuito scolastico per anni, a essere reintegrati nella scuola pubblica e a poter conseguire poi il diploma statale. Questo approccio è complementare a quello delle scuole internazionali, che invece implementiamo in contesti meno volatili e ci consentono di sviluppare un percorso di studi di alta qualità della durata di 7 anni. In cosa consiste il metodo educativo Still I Rise? I nostri studenti sono al centro di tutto: non ci interessano i numeri, ci interessa la qualità che possiamo portare nelle loro vite, tale da incentivare un miglioramento che si ripercuoterà anche nelle loro famiglie e — di riflesso — nelle comunità in cui sono inseriti. Le nostre lezioni non sono convenzionali e ci teniamo che loro considerino la scuola come una casa, un luogo sicuro in cui sviluppare tutto il potenziale di cui ognuno di noi è custode. Gli insegnanti in questo senso hanno un ruolo cruciale: l’approccio è orizzontale, il maestro è un mentore in grado di coltivare i sogni e le aspirazioni dei suoi studenti, e si pone per loro come costante punto di riferimento. Educhiamo poi al pensiero globale e portiamo i nostri ragazzi a essere e sentirsi cittadini del mondo, agenti attivi di ogni cambiamento possibile. Con quali obiettivi nasce e come sarà organizzata la prima scuola internazionale sul modello Still I Rise per bambini profughi in Italia? Ci tengo a precisare che aprire una scuola in Italia è tra i nostri obiettivi, ma al momento il progetto non è ancora partito e la situazione globale degli ultimi due anni non ci consente al momento di dire precisamente quando lo faremo. Ad ogni modo, ciò che abbiamo in mente è di replicare il modello di scuola internazionale per minori profughi e vulnerabili locali, già implementato in Kenya: un percorso di 7 anni di alta qualità, che porterà gli studenti a raggiungere un diploma IB (International Baccalaureate) in grado di aprire le porte alle borse di studio delle più importanti università del mondo. Parliamo di un percorso di studi finora esclusivo delle categorie sociali più agiate, che costa normalmente migliaia di euro l’anno per ogni studente: noi invece lo offriamo totalmente gratis. L’idea è proprio quella di ribaltare il concetto di educazione, che purtroppo — al contrario di quanto si crede — non è affatto democratica. Crediamo che tutti i bambini meritino un’istruzione di altissima qualità, e questo per noi deve prescindere dalla loro condizione sociale ed economica: questa è la rivoluzione in cui crediamo e che ci stiamo impegnando a portare nel mondo. In che modo la comunità internazionale dovrebbe farsi carico dei bambini costretti a migrare? Certamente incentivando l’apertura di corridoi umanitari, sia per i minori non accompagnati, sia per i minori con le loro famiglie. Ma soprattutto ripensando le politiche migratorie: purtroppo si preferisce alzare muri e criminalizzare i richiedenti asilo, piuttosto che puntare sull’accoglienza e su soluzioni differenti. Siamo tutti esseri umani sotto lo stesso cielo: non dimentichiamolo mai.
Articolo di Cristina Lonigro, tratto da Sanpanews, Voci per crescere, nr. 62 di novembre 2021