Certe sere, quando tutti dormono, mi affaccio dalla finestra della mia camera. Guardo le stelle, guardo la strada. E mi chiedo, come sarebbe sparire per sempre?
Le folate di vento, le luci delle finestre, negli altri palazzi e il silenzio. Quel silenzio che dentro casa mi fa sentire il casino che ho nella testa, nel cuore, nel petto. La scuola, i genitori, i ragazzi più grandi, gli insegnanti. Tutto quello che mi succede, che sento. E che non dico a nessuno. Tutte le cose che qui non ci sono. Qui ci sono solo io e l’altezza, sotto di me. Metto una gamba fuori dalla finestra, mi appoggio e tiro fuori anche l’altra, mi siedo sul davanzale. Appoggio prima un piede, faccio un saltello e sono sul tetto. Camminando piano sento le tegole che non sono fisse sotto di me. Respiro profondamente. Sono sul ciglio. Ho quattordici anni e la vita fa schifo. Non parlo solo della mia, ma in generale. Su Instagram e TikTok sembrano felici, ma hanno tutti più o meno la mia vita. Mio fratello se n’è andato di casa 3 mesi fa, non so dove sia. Mia mamma mi chiede sempre come sto, ma con lei non riesco a parlare. Quest’anno a scuola sono arrivato al liceo, che palle, sono il più piccolo e non conosco nessuno. In più hanno ricominciato a prendermi di mira. Alle medie mi chiamavano “tortillas”, senza capire che io sono brasiliano, le tortillas si fanno in Messico. Ma a loro non importava. In terza un po’ la situazione è migliorata, ma ora è anche peggio. Ora non mi dicono niente. Mi guardano da lontano e ridacchiano. E fa ancora più male. Mi chiamo Miguel e vengo da San Paolo. Ho quattordici anni e sono in Italia da quando ne avevo sette. Praticamente ogni giorno la mia vita è questa, da molto tempo a questa parte. Ogni giorno dopo la scuola rientro a casa, dico “ciao”, ma non c’è nessuno. Vado in camera mia. Apro quella finestra. Esco, mettendo fuori una gamba per volta, salto sul tetto. Chiudo gli occhi. Inspiro tutta l’aria che riesco poi parto, scatto mentre apro gli occhi, corro spostando le tegole sotto i miei piedi e con l’ultimo piede sul ciglio, spicco un salto. E atterro sul tetto di fronte. Qui nel mio paesino le case sono costruite proprio l’una sull’altra ed è il posto perfetto per fare parkour. Sono anni che mi alleno, da solo, nei parchetti e nelle piazze, ovunque ci sia qualcosa da saltare. Sto migliorando ogni giorno, anche grazie all’esercizio fisico costante, anche se mia mamma non vuole. Ha paura che mi faccia male seriamente, e in effetti è già successo. Ma non puoi imparare senza farti male in questo sport. Come in tanti altri. Senza contare che è l’unica cosa che mi fa sentire libero. Non solo “libero dai problemi”, non intendo questo: libero di essere ciò che sono, e che nessun’altro sa. Quando mi affaccio dalla finestra ricordo tutte quelle sere di tanti anni fa, in cui sarei voluto volare via. Quei momenti in cui mi chiedevo che senso avesse continuare a svegliarsi, a vivere quelle giornate e quei problemi. Qualche sera ci ho pensato. Seriamente. L’ho sempre tenuto dentro di me e sinceramente non so se un giorno avrò il coraggio di raccontarlo a mia mamma, ho paura di farle male, non parlo con lei come con mio fratello. La vita oggi continua a essere difficile e non ho ancora trovato una soluzione a tutto. Però mi alzo la mattina con un obiettivo: tornare a casa e correre. Saltare un muro di tre metri. Volare come quelle persone, che vedevo nei video di parkour qualche anno fa, quando per sentirmi meglio e non pensare al mio male sognavo di diventare come loro. Oggi sorrido, e vivo per trovarmi con i miei nuovi amici, il pomeriggio, nei posti del mio paese che nessuno conosce. Perché mi fa stare bene. Perché quando corro sono veramente me stesso.
Miguel
Tratto da “Sanpa News – Classe 2000” n.44 Maggio 2020
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