Cammino sul mondo a passi incerti. Ormai da più di un mese la mia coscienza si è persa in luoghi che non conosco. Sento di non avere una casa e i miei quattordici anni sono spariti nella maschera di sicurezza che con troppa facilità indosso: per strada non esiste debolezza o incertezza
Il parco è enorme, il più grande d’Europa, ma se i primi passi erano incerti, ora che mi avvicino sembra che sia sempre stata questa casa mia. Nel sentiero buio si intravede un gruppo di ragazzi in cerchio e quando mi avvicino mi sento più serena. Musica. Stanno cantando e so già che tra loro riuscirò a sentirmi, almeno per poco, parte di qualcosa. Fanno freestyle per strada, qualcuno balla, ci capiamo parlando lo stesso linguaggio, sono i nostri corpi a raccontare chi siamo. Ascolto le loro rime, le loro storie sputate su basi ritmate. Una canotta verde e larga da basket si fa largo fra il gruppetto.
Sembra sud americano, gli occhi due pozzi neri e profondi: la strada gli si legge addosso. Canta in spagnolo e resto incantata. Amo la sonorità delle sue parole e lui è bravissimo. Ci dirigiamo in gruppo verso l’area del festival, dura da giorni e stasera ci sarà musica hip hop. Dopo i concerti canteranno anche ragazzi della zona. Ci disperdiamo in fretta, come al solito vago di gruppetto in gruppetto senza una meta precisa. La verità è che questa non è casa mia e tutte queste facce non hanno nulla a che fare con me. Vorrei fosse così per non sentirmi tanto sola. Parlo con un ragazzo che ha un banchetto di dilatatori, ma non riesco a passarci più di un’ora, la tentazione di raccontare tutto e rendermi vulnerabile è troppa. La mia unica soluzione è trovare tutta la birra che posso e annegarci dentro, non esiste più nulla che mi tenga a bada come questo. La zona si è svuotata, buona parte della gente ha una casa in cui tornare, io mi limiterò a trovare il primo angolo riparato da qualche parte.
I miei passi tornano ad essere incerti. Il mondo trema sotto i miei piedi. Il sentiero è ancora più buio e vuoto dell’andata. Una mano mi si posa sulla spalla, mi immobilizzo, non so se ho paura. Una canotta verde, occhi neri, pelle leggermente scura, non c’è traccia di cattiveria nel suo sguardo, forse solo triste comprensione, ma nessuna cattiveria. Mi chiede se sono per strada da sola. Si vede così tanto? Ovvio che si vede, non serve puzzare, lo si legge negli occhi se uno è sporco dentro. Lui mi dice che sta in un altro parco, più riparato. Chiacchieriamo ormai da mezz’ora in piedi in mezzo al buio. Ascolto la sua storia, rispondo solo a poche domande mentre lo osservo, c’è qualcosa di interessante nel suo viso. Settimane di apatia, passività, il mondo scorre davanti ai miei occhi, sotto i miei passi incerti.
Credo stia zitto già da qualche minuto. Mi guarda, dice che sono bella, non merito questa fine, non ci credo. Mi stringe in un abbraccio, è dolce ma forte, per qualche minuto riesce a tener insieme i frammenti della mia anima. E poi mi bacia, non so nemmeno se lo voglio, non mi dispiace davvero, c’è qualcosa di estremamente protettivo nel suo tocco, non c’è la malizia, non c’è la sporcizia che ho avuto modo di conoscere, solo quel momento in cui mi sembra di conoscerlo da sempre. Il cemento è duro sotto la mia schiena, ma la testa è protetta dal suo braccio e le rime della sua canzone, sussurrate vicino al mio orecchio, accompagnano la distesa di stelle davanti ai miei occhi.
Mi sono lasciata convincere dalla promessa di protezione che mi hanno offerto le sue braccia. Mi sono lasciata convincere da quegli occhi stanchi, ma buoni «Non farò nulla che tu non voglia» mi ha detto, mi sono fidata e lui è stato di parola. Abbiamo parlato per ore. Ha solo ventunenni e così tanto da dire. Vorrei potergli raccontare tutto, ma non posso, mi cercano e non voglio che qualcuno passi dei guai per questa storia. Sono arrivati gli sbirri e mi ha tenuta nascosta. Non gli ho detto nulla, ma lui ha capito tutto. La distesa nera sulle nostre teste lascia spazio ad un cielo plumbeo, spento come me. «Torna a casa. Tu puoi». Chiudo gli occhi, mi perdo nelle carezze leggere che mi fa sul viso, mi sento piccola. Il peso della vita che ho scelto, o che non ho scelto, ancora non mi è chiaro, mi schiaccia. Piango. Piango i quattordici anni che mi sembra di non aver mai avuto, piango la spensieratezza persa, piango il mese di sofferenze, il cielo plumbeo che mi guarda dall’alto, il braccio sconosciuto che mi circonda e protegge, la mano dolce che mi accarezza. E torno, torno perché so che è arrivata l’ora. Eppure l’ora è già passata, tutto è ormai cambiato, ed io non posso più cambiare la vita che ho scelto e non ho scelto, ora lo so.
Aurora
Tratto da “SanpaNews”. Scopri come riceverlo