Il terreno ad ogni mio passo sembra attaccarsi sempre più alle suole delle scarpe. Sembra tirarmi indietro, come a volermi fermare. I soliti alberi mi sfilano accanto mentre avanzo verso la mia meta.
Come al solito i passanti si scansano quando passo. Ed io arranco sulla strada tutta rovinata e sulle radici degli alberi che sfondano l’asfalto con la violenza della staticità, ed è con questa violenza che il cuore mi sfonda il petto. I suoni tutt’attorno sono un’accozzaglia cacofonica che non fa altro che penetrarmi la testa continuamente. Vorrei accendere una sigaretta, ma non riesco a fare neanche quello. Non riesco neanche a tirare fuori il tabacco e girarla. Mi sembra di andare lentissima eppure in un istante mi rendo conto di avere il passo veloce, sempre più veloce. Più mi avvicino e più aumenta questa sensazione che mi lascia sospesa a metà tra la mia percezione di ciò che ho attorno e la realtà. Questa sensazione che mi lascia capire quasi lucidamente quanto io stia davvero male.
Giro l’angolo e penso che dovrei superarmi e provare a me stessa che posso star bene anche senza prendere nulla. Che dovrei provare a smettere con la cocaina e l’eroina per dimostrarlo a me stessa. Mi girano in testa miliardi di “dovrei”, milioni di sensi di colpa per la mia famiglia, soprattutto per mia madre.
Giro l’angolo e ormai non ho tempo per le cose inutili, sono arrivata.
Pago, prendo e ciao. Nascondo i pezzi nella tasca del giacchetto e invece di chiudere la zip continuo a stringerli per paura di perderli, per paura di perdermi. Il viaggio sui bus per andare a casa mi sembra interminabile: è come vedere a rallentatore gli stessi fotogrammi che vedo ogni giorno. Continuo ad alzare ed abbassare nervosamente il volume della musica per controllare se parlano veramente male di me, se dicono veramente quelle cose che mi sembra di sentire quando alzo il volume. E mentre Eminem canta “Déjà-vu” a ripetizione da quando sono partita, mi rendo conto che la mia vita non è altro che un eterno déjà-vu, una ripetizione di sensazioni e situazioni che mi sembra di aver già vissuto perché in fondo sono sempre tutte uguali. Continuo a pensarci quando scendo alla stazione e quando prendo l’altro autobus. Lo faccio ancora per tutti i 40 minuti della seconda corsa, fino a quando l’autobus si ferma alla mia fermata e io mi catapulto giù. Percorro la strada verso casa il più velocemente possibile, guardandomi le scarpe. E continuo a farlo, tengo gli occhi puntati su di loro, per paura che possano continuare senza di me, lasciandomi lì. Sono per aria. Che pensieri mi passano per la testa! Cerco le chiavi nella tasca dei jeans, nelle tasche del giacchetto. Comincio ad avvertire una crisi di panico e sento come un cappio stringermi il collo, poi mi ricordo che sono nel reggiseno e di colpo tutto torna quasi normale. Apro la porta. La chiudo a chiave. Vado in bagno. Mi chiudo dentro. Controllo che la serranda sia chiusa. Faccio tutto meccanicamente e col fiato sospeso, fino al momento in cui mi siedo tra lo spazio di fronte al water e al bidè. Riprendo fiato. Eroina. Mi prende. Vivo. E torna Aurora. Non è vero. Torna il vuoto. Me la ricordo tutta la storia perché è stata sempre quasi la stessa, anche con altre droghe. È stampata a fuoco nella mia memoria perché non ha fine. Perché non finisce né bene né male. Finisce e basta, in un giorno di metà febbraio nello sguardo di mia madre che urla e piange. La mia storia non è finita. Anzi. Ho messo un punto e girato la pagina per iniziare un nuovo capitolo. Migliore e pieno di novità.
Aurora
Tratto da “SanpaNews”. Scopri come riceverlo.