Acqua passata

Guardo lo schermo. Siamo al numero 253. “Consegna pacchi”. Nella mia mano stringo un biglietto, numero 254. Una signora mi guarda un attimo. Si vede che ha fretta. Le porgo il mio biglietto, senza guardarla. Lei lo prende, mi ringrazia, io mi alzo, vado a prenderne un altro

Tutte le mattine mi sveglio e vado alle poste. Non so perché lo faccio. Probabilmente i ragazzi di ventidue anni non fanno la vita che faccio io. Le persone mi guardano. Forse è perché sono malridotto, vestito male. Forse perché non ho nessun pacco, nessuna lettera. Non devo né spedire, né ricevere niente. Vengo qui perché mi trovo in mezzo alle persone, mi sembra di essere un po’ meno solo. È sempre stato ciò che mi ha fatto male. È in funzione di questo che ho fatto ogni mia scelta. Avevo dodici anni, quando mi sono avvicinato a quei ragazzi più grandi. Io vivevo in un piccolo paese, dove tutti si conoscono. Sapevo benissimo cosa stessi facendo. Si ritrovavano tutti i pomeriggi sulla montagna, con le moto da cross, in un punto dove nessuno poteva raggiungerli, per andare a fumare e a bere. Loro erano quelli che prendevano in giro gli altri, quelli che tutti guardavano. Io li odiavo, perché se l’erano sempre presa con me. Quando mia madre è scappata con quell’altro uomo, andando via di casa, loro hanno riso di me, l’hanno detto a tutti. Quando sono arrivato alle medie, erano loro a chiamarmi “ciccione”. Eppure, nonostante quell’odio, dentro di me c’era la voglia di essere come loro. Di essere intoccabile, più forte degli altri. Invece ero uno sfigato. Il pomeriggio mi chiudevo in casa, mangiavo e giocavo alla playstation. Ogni tanto provavo a fumare, a bere birra. Ho iniziato a fare queste cose da solo, per noia, per superare quel momento e stare bene. Forse era sbagliato, ma tanto era tutto sbagliato. Forse è stato per questo che sono andato proprio da quei ragazzi. Anche quando sono arrivato, ovviamente, hanno iniziato a canzonarmi. Me ne fregavo. Dopo un po’ si sono abituati a me, anche se ogni tanto scappava sempre la battuta, “cosa ci fai qua”, “Matteo il grassone”, e così via. Con loro ho fatto le mie prime bevute, le prime festicciole la sera. Anche se ero una “mezza cartuccia”, stavo cominciando a vedere il mondo, a vivere davvero. Loro mi prendevano continuamente in giro, avevano una vita più bella, con delle belle ragazze e degli amici. Ma me ne fregavo. Fino a quel giorno. Ci siamo riuniti tutti quanti, e ci raggiunge un ragazzo delle superiori. Ci chiama tutti in cerchio e tira fuori una busta trasparente con dentro dell’erba. Io sapevo cos’era. Avevo paura di quello che sarebbe accaduto, ma in fondo avevo anche voglia di farlo, di trasgredire. Mi guardavano mentre mi passavano quella canna. Era una messa alla prova. Lo “sfigato”, avrà il coraggio? Ho fumato. Ho chiuso gli occhi, spingendo tutta la mia rabbia nei polmoni, per non tossire. E quando ti rendi conto che non sei morto, puoi farlo anche tu, perché non sei fatto di carta pesta… cominci ad andare oltre. Passa poco tempo e inizio a credere in ciò che stavo costruendo. La mia nuova maschera. Era l’unica cosa in cui potessi sperare davvero. A scuola andavo molto male, non facevo praticamente niente, mi sospendevano spesso. Continuavo a fare casini anche fuori da scuola, bevendo e fumando, conoscendo gente di altri paesini. Molti ragazzi in quei paesi di montagna mischiavano ad alcol e canne anche gli psicofarmaci. Sono facili da trovare. Ho provato anche quello, ovviamente. È stato tutto molto veloce, avevo sedici anni ed ero passato dall’essere sfigato e ciccione, a che mi conoscevano in tutti i locali. Ero dimagrito, le ragazze mi guardavano, la gente mi parlava da pari a pari. Più continuavo ad andare avanti, più quell’odio dentro di me si trasformava. Io odiavo tutta questa gente. Nessuno era mio amico. Forse, ripensandoci oggi, era depressione, o un qualche tipo di malattia. Quello che mi ha ferito maggiormente nella mia vita, è stato conoscere qualcosa di bello. Beatrice. Una ragazza che non sapeva niente di cosa facessi. Una ragazza con cui, non so dirvi perché, riuscivo ad essere qualcos’altro. Non pensavo che esistesse un Matteo sensibile, capace di stare con qualcuno e sorridere. Era come se stando con lei riuscissi ad essere normale. Non sono mai riuscito a portare in giro quello che diventavo, quando ero con lei. Quando quella rabbia verso gli altri si è acquietata, è diventata qualcos’altro. Tristezza. Noia. Come se ogni cosa intorno a me non avesse senso. Non è stata Beatrice a lasciarmi, sono stato io a tradirla. Non saprei dire oggi perché l’ho fatto. Sentivo quella tristezza, ero in un locale, con gente che diceva di conoscermi. Avevo preso sia alcol che psicofarmaci, stavo continuando a fumare, ma restavo in silenzio. Questa cosa forse mi faceva apparire duro, “figo”, ma a me degli altri non fregava niente. È stata quella sera che, mentre tornavo a casa, mi sono buttato dal ponte, nel fiume principale del paese. Dopo poco sono arrivati tutti quanti, assieme all’ambulanza. Mia mamma, mia sorella, il suo fidanzato, mio padre. Erano tutti in giro a cercarmi. Poco prima avevo preso il cellulare e avevo chiamato il 118. “Mi troverete qui, oppure seguendo il fiume”. Avevano passato la mia chiamata ai carabinieri. Mi hanno portato in tempo all’ospedale, poi mi hanno ricoverato immediatamente in psichiatria. I miei genitori facevano i turni per starmi vicini in ospedale. Per qualche giorno mi hanno lasciato tranquillo. Ho chiamato Beatrice, le ho raccontato tutto. Ma ormai era troppo tardi. Dopo il ricovero stavo malissimo, tra attacchi di panico e momenti di calma piatta. Ripensavo a lei, a me da piccolo, anche se in generale cercavo di non pensare. Il tempo passa, il dolore si attenua, in qualche modo le cose devono continuare. Dopo un po’ tutti vogliono che quella storia sia acqua passata, e agli occhi di tutti io non sono più un pazzo. Il vero problema è che sono un tossico. Ricomincio a bere e a fumare, a uscire con quelli che mi assomigliano, che ragionano come me. Trovo anche una ragazza, che come me si droga. Usciamo tutti insieme, spacciamo, facciamo i viaggi con la macchina per prendere la droga a tutto il nostro paese, andare ai rave e spaccarci. Loro non avevano limiti. A me invece non importava niente. Né di loro, né di me stesso. Forse nemmeno di morire. E ci sono andato vicino, non so quante volte. Ricordo una sera, siamo andati con dei suoi amici a vedere un concerto. Guidavo io. Non so quante pasticche abbiamo ingoiato quella sera, eravamo tutti fuori di testa. Al mattino ci siamo rimessi in auto per tornare a casa. Un ragazzo dormiva nel bagagliaio, la mia ragazza e un altro tipo stavano dietro, allucinati. Un altro, di fianco a me, preparava le righe di coca sul telefono, che continuavo a pippare per non dormire. Ogni dieci minuti mi addormentavo, chiudevo gli occhi e invadevo le altre corsie, andavo a sbattere contro il guardrail. Ce ne siamo resi conto di quanto avevamo rischiato solo quando siamo arrivati, vedendo in che condizioni fosse la macchina. Aveva segni profondi su tutti e due i lati. Potevamo morire. Potevamo uccidere persone innocenti. Siamo andati al parchetto a riderci su, continuando a pippare cocaina, per finire la serata. Ho fatto quella vita per anni, non riuscivo a smettere. La mia vita non valeva niente, non avevo idea di cosa potessi fare. Svegliarmi una mattina e dire “da oggi smetto” era semplicemente impossibile. Ci avevo provato da solo e perfino con i miei genitori, dopo il ricovero. Non li vedevo da anni. Continuavo a vivere da solo, spacciando e lavorando. Era solo questione di tempo prima che tutto finisse, in un modo o nell’altro. Non lo dicevo a nessuno, ma mentre continuavo a fare quella vita mi svegliavo presto, ogni mattina. Era come se mi mancasse avere qualcuno intorno. Ripensavo a Beatrice, a tutto quello che avevo fatto. Facevo tanti sogni ad occhi aperti. Mi nutrivo dello sguardo di quelle persone che mi vedevano seduto alle poste, domandandosi cosa ci facesse lì un ragazzo della mia età, tutte le mattine. Forse è stata quella signora, quella mattina, a farmi scattare qualcosa. Ero all’esasperazione, anche se non si sarebbe detto. In quella calma apparente, il suo sguardo mi aveva ricordato mia madre. Mi ero seduto, cercavo di trattenere i singhiozzi, guardavo quel numero che stringevo in mano pensando che non aspettavo niente. Forse aspettavo che tutto finisse. Ma in quel momento ho capito: finalmente era arrivato il mio turno. Ho staccato il cervello, ho preso il telefono e ho chiamato mia mamma. Le ho chiesto di venire alle poste dove mi portava tutti i giorni quando ero piccolo. Quando è arrivata sono salito in macchina. Lei mi guardava, non sapeva cosa dire, come provare ad aiutarmi. Ero un derelitto. Mi ha chiesto che cosa potesse fare. Io ho cominciato a piangere, a vomitare fuori tutto, dicendo che ero stanco di vivere così, che non sapevo come fare a cambiare vita e che mi serviva una mano. Qualunque fosse stata la mano, l’avrei presa. È stato allora che ho provato quella sensazione, quel piacere immenso. La sensazione che avevo abbandonato per tutta la vita. Ho abbracciato quel corpicino esile, ritrovandoci le sensazioni che provavo da piccolo, prima che se ne andasse, quando mi stringeva e mi sentivo la cosa più importante dell’universo. “Non devi farlo da solo” mi ha detto lei. “Non so cosa possiamo fare, ma è già molto tempo che vado in questo posto… ragazzi e genitori che hanno rapporti con San Patrignano. Non so se sia la strada giusta. Però adesso basta, smettila di cercarla da solo. Ti scongiuro, amore mio. Fatti aiutare. Vieni con me, facciamo questo cammino insieme, fino alla fine”.

Articolo di Matteo tratto da “Sanpanews-Voci per crescere” N° 69 giugno 2022
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