Due mondi

Andare alle feste è diventato uno stile di vita, come d’altronde lo è stato il vivere per strada e il bighellonare. Quando entri in quell’ambiente ti adatti, disconosci le tue origini, ti spogli di tutto: ti dimentichi di avere un nome, una famiglia. Rifiuti tutto e tutti

In quel liceo non ci volevo stare. Nella mia classe, poi, erano tutti bravi tranne me: mi sentivo sempre un pesce fuor d’acqua. Loro avevano scelto il liceo classico spontaneamente, io no: per me aveva scelto mia madre. A me piaceva disegnare, il mio desiderio era sempre stato quello di frequentare l’istituto d’arte. Mi piaceva tutto di quella scuola: l’ambiente, il fatto che fossero tutti un po’ alternativi, artisti, musicisti, tutti ragazzi senza regole. Alla fine, tutte persone semplici. Non mi piaceva studiare, o forse sì, purtroppo non lo saprò mai; per mia mamma la cultura e lo studio erano tutto e, in questo modo, me le ha fatte odiare. Non avevo interesse per quelle materie, le trovavo noiose e difficili, mi sentivo da meno in classe e questo mi portava a isolarmi. All’inizio  andai avanti per tentativi: provai ad avvicinarmi ai “fighetti”, a quelli con i soldi e che avevano una famiglia simile alla mia. Mia madre mi ripeteva sempre di stare con persone simili a me, ma io questo modo di pensare l’ho sempre considerato vecchio e classista. Poi mi sono avvicinata a quelli “studiosi”, anche perché avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse nei compiti: ma non sono riuscita a trovare niente che mi accomunasse a loro, erano noiosi e avevano interessi troppo diversi dai miei. Più che altro era il concetto di divertimento che era molto diverso dal mio. Non mi piaceva stare in classe e nemmeno a casa; ero priva di stimoli e non mi sentivo libera di esprimermi. Così ogni scusa era buona per stare in giro. All’inizio, un po’ con chi capitava. Principalmente con persone più grandi che fumavano le canne. Passai velocemente anche ad altre droghe, quindi la mia cerchia di amici si adattò e si espanse, diventando una vera e propria compagnia: quella con cui, negli anni a venire, avrei condiviso le mie prime esperienze e avrei passato la mia adolescenza. Ero alla ricerca continua di stimoli e cercavo di trovare modi diversi per rafforzare la mia identità. Mi feci subito notare dagli “alternativi” della scuola e dai grandi che organizzavano le assemblee, le manifestazioni e le occupazioni; mi misi a spacciare, se uscivo con i fricchettoni mi portavo dietro la chitarra, se uscivo con i punkabbestia mi portavo dietro la Korg di un amico e mi mettevo a suonare con loro. Insomma, non trovavo pace. Tutte queste esperienze, alla fine, mi fecero avvicinare velocemente al mondo delle sostanze. C’è chi sceglieva le discoteche la domenica pomeriggio e le cene in pizzeria con gli amici; c’è invece chi sceglieva la musica e i rave… come me. A quelli mi avvicinai proprio in quel periodo. Dopo essermi affiancata in un primo tempo ai gruppi di musicisti della scuola, il passo successivo fu poi quello dei ragazzi con i dread, i cani e i pantaloni larghi, che si approcciavano anche loro per la prima volta alle feste illegali e alla techno. Tanti ricordi che ho di quel periodo sono sbiaditi; per più di dieci anni ho continuato a frequentare quell’ambiente. Mi spostavo, all’insaputa dei miei, in treno su e giù per l’Italia, in furgone o in macchina di persone che a malapena conoscevo. All’inizio mi limitavo ai weekend perché, essendo minorenne, non ero del tutto autonoma e vivendo ancora in casa dovevo rendere conto dei miei spostamenti. Anche se poi non lo facevo mai. Diventata maggiorenne, le feste sono diventate uno stile di vita, come lo è diventato vivere per strada, scollettare e bighellonare in giro. Quando entri in quell’ambiente, ti adatti, disconosci le tue origini, ti spogli di tutto: ti dimentichi di avere un nome, una famiglia. Rifiuti tutto e tutti. A oggi penso di aver preferito le feste alle discoteche per paura del giudizio degli altri, per colpa di quell’insicurezza che ha sempre fatto parte di me. Avevo delle idee ben ferme sul concetto di giudizio e su cosa potevo scegliere per me per non sentirmi sempre fuori luogo; pensavo che ai rave non ci fossero distinzioni. Puoi ballare liberamente davanti e dietro ai sound senza che nessuno ti dica niente, senza che nessuno si curi di te. In discoteca invece, con le sale e i privè, non balli mai tutti insieme: una linea immaginaria divide la gente “normale” da quella di un certo tipo, quella che se lo può permettere. In discoteca ci sono i buttafuori e viene fatta un‘accurata selezione all’entrata, ai rave no, nessuno guarda chi può entrare e chi no, e soprattutto nessuno è li a giudicare in che modo sei vestito. La discoteca a una cert’ora chiude e manda tutti a casa, al rave non c’è orario. In discoteca c’è un deejay, al rave tutti possono fare musica. In discoteca si paga, al rave no. Al rave non c’è limite al divertimento. Questi sono solo una parte dei motivi che mi hanno fatto avvicinare a tutto questo e pensare che quello fosse l’unico modo di vivere una vita senza essere giudicati, proprio come in una grande famiglia. Ma mi sbagliavo. Vivere così ti porta automaticamente ai margini della società; a essere considerato uno scarto, un inetto, un disadatto. L’unica cosa che accomuna le persone di questa “grande famiglia” è il disagio, il voler evadere dalla propria realtà. Quella realtà che non ti soddisfa e che ti porta tutti i giorni a farti del male. Sì, perché alle feste ti fai del male. Il rotolarsi per terra, il ballare ore e ore con la testa infilata in una cassa, il non accorgerti di quello che ti succede intorno: la gente che biascica, smascella e si vomita addosso. O persone che ridono mentre i propri cani si azzannano e i propri amici si accasciano. Nessuna “grande famiglia” farebbe tutto questo. Tutto questo è farsi del male. Anche io avevo trovato il mio modo di evadere. Mi stavo costruendo una realtà tutta mia, da cui avevo escluso le persone che fino a quel momento mi erano state accanto, compresa la mia famiglia. All’inizio, non sentendo il peso delle responsabilità, riuscivo a passare le mie giornate in giro, drogandomi e ascoltando musica senza essere toccata da pensieri: nessun pensiero su come arrivare alla fine del mese, su dove andare a dormire, su che amici chiamare… tanto la sicurezza di avere tutte queste cose, qualora avessi deciso di tornare, l’avrei avuta. Stando sempre per strada, fu inevitabile il mio avvicinamento a un certo tipo di persone, tutte quelle che non avevano niente da perdere. Io invece, da perdere, avevo molto: il pericolo era davanti ai miei occhi, ma non lo volevo vedere. Pensavo che tutte le persone che conoscevo e quelle affiatate con cui giravo tutti i giorni volessero il mio bene: erano tutti più grandi di me e credevo, ingenuamente, che mi volessero in qualche modo tutelare. Non sfruttarmi e farmi del male. Non mi va di pensare molto a quegli anni, anche perché i ricordi sono pressoché nulli; tuttavia il ricordo di una giornata in particolare mi è rimasto impresso nella mente, e fatico a cancellarla. Eravamo a casa di un’amica di uno che mi piaceva, tutti reduci da tre giorni di teknival nel nord Italia. Ero la più piccola in quel giro ma non me ne importava: l’importante era arrivare a destinazione con meno fatica possibile e se questo comportava salire nei furgoni di sconosciuti… beh, lo facevo. Ero stufa di viaggiare sempre in treno ed essere considerata una ragazzina. Le altre ragazze erano molto più grandi di me, io avevo quattordici anni mentre loro già una trentina, e nemmeno mi consideravano. Parlavano tra di loro, mentre gli altri parlavano di sound francesi e di storie. Ricordo che mi sentivo fuori luogo, a disagio, in più ero fatta di speed e, di conseguenza, molto su di giri. Me ne sarei voluta andare, ma il solo pensiero che tutti potessero giudicarmi non mi faceva muovere le gambe verso quella dannata porta. A un certo punto mi arriva tra le mani una stagnola: sopra una strisciata con un sasso beige, sembrava caramello, che emanava un odore molto forte. “Dai su, provala, è solo oppio, così ti rilassi!”. E scoppia a ridere con le altre. Io non me lo faccio dire due volte. Aspiro, faccio un tiro lungo e me lo tengo dentro. Poi ne faccio un altro, e un altro ancora. Ci prendo gusto. Alla fine la mia mano molla quel pezzo di alluminio, che cade in terra. E un senso di quiete mi pervade. Mi fermo. Mi stendo cullata dai bassi della cassa in sottofondo. Tutti i pensieri che avevo avuto fino a quel momento, come per magia, svaniscono. Il giorno dopo sono con M. a cercare la roba in piazza: da quel momento non sono più riuscita a fermarmi. Da quel momento, la mia vita è stata sempre e solo quella per anni. Era il 2002. Ora siamo nel 2021 e sono nella Comunità di San Patrignano da più di tre anni. Sto cercando faticosamente di riprendere la mia vita in mano, e rimediare agli errori fatti. Errori che hanno compromesso una vita. La mia vita.

Articolo  di Valentina Lisi tratto da “Sanpanews-Voci per crescere” N64 gennaio 2022
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