Ti porterò via con me

Voglio portarti via. Non vedrai più queste persone, questi giorni bui. Voglio portarti dove non c’è odio, dove non devi tapparti le orecchie e puoi sentirti libera quando ti pare. Ti mostrerò un luogo dove non ci sono porte chiuse o silenzi assordanti, un posto dove non ci saranno quegli sguardi che fanno male, perché ti trasmettono tutte le parole non dette che ti porti dentro da una vita, forse da sempre

Non lo so com’è la vita. Tra due anni sarò maggiorenne, forse me ne andrò di casa. Forse avrò un piano, in quel momento. Adesso non lo so. Del resto non lo sai nemmeno tu. Tu che vivi con due genitori separati in casa, che non ascolti nessun professore, che a scuola ci vai solo per gli amici, quelli che vogliono insegnarti come vivono per provare a se stessi che hanno ragione loro. Tu non sai niente, ma potrei spiegartelo io. Non saprei dirti se questo posto dove voglio portarti esiste davvero, o se sia tutto un’illusione. Se un giorno dovesse sparire questo mondo, nemmeno io saprei come vivere, con la gente ‘normale’. A me non è andata così male come a te. Avevo una famiglia, una di quelle che si vedono nelle pubblicità del Mulino Bianco. E io ero perfetto. Da piccolo ero il “cocco di mamma”, poi sono diventato il “cocco della maestra”. Ed è sempre stato così. Col mio faccino innocente mi sono assicurato sempre il posto migliore, sotto l’ala protettrice di tutti. Ero quello bravo. Il ragazzo della parrocchia, l’animatore dei ragazzi al campo solare. Però ero anche lo sfigato della scuola. Quello con gli amici sfigati. Quello che si vergognava di come era veramente, ma che non sapeva dove nascondersi. Quando facevo l’animatore era diverso, ero io quello grande, i bambini mi ascoltavano e io mi sentivo già grande. Ma quando tornavo a scuola capivo di essere quello piccolo, con la faccia da bambino. Ero quello che sarebbe stato schiacciato da quelli di quinta, dal mondo reale. È per questo che mi sono messo in quel mondo. Di proposito. Ho cominciato con un altro ragazzo, poi ho conosciuto tanta gente, quelli che a scuola sembravano intoccabili. Per dimostrare che ero cambiato ho iniziato a fare come loro e ad allontanarmi dalla parrocchia. Non volevo mai più essere associato a quello che ero, ai miei vecchi amici. Mi sembrava di aver conquistato tutto. C’erano i vestiti larghi, le conoscenze giuste. Le canne. Sì, anche le canne. Chissenefrega. Andava bene tutto. Forse ero diventato un ragazzo sbagliato, ma a scuola era cambiato tutto. Mi sembrava di respirare per la prima volta. Per niente al mondo avrei rinunciato a quello che ero, a quei luoghi, quelle situazioni. Così, quando mi misero davanti la prima riga di cocaina non rifiutai, anzi. Dissi che l’avevo già provata. Ci ero finito di proposito in quel mondo, ma non sapevo quello che stessi passando tu. Tu eri nata con le ali spezzate. Sentivo la tua tristezza e avrei voluto che finisse tutto. Non volevo più vedere i tuoi litigare in casa, non volevo più vedere i miei, non volevo continuare a mentirgli. Volevo vivere come volevo, facendo finta che andasse bene. Volevo soltanto scappare via con te. Volevo dimostrarti che ero grande, che potevo pensare a tutto. Ma avevo solo sedici anni. E conoscevo un solo modo di scappare. Così ti ho portata via con me. Mentre il mondo continuava imperterrito a girare, e le persone litigavano, lavoravano e ci cercavano, io chiudevo la porta di quella camera, dove c’eravamo solo io e te. Tu non capivi, ma in silenzio io ti accompagnavo nel mio mondo, dove non c’erano guerre, discussioni o problemi. Un mondo dove c’eravamo solo io e te, i nostri discorsi alchemici, i nostri viaggi interspaziali, il nostro amore mistico e selvaggio. In fondo io appoggiavo solo una cosa piccola sulle tue labbra, niente di più. O al massimo sotto la lingua. Un pezzo di carta, una goccia di universo. Poi in quella camera compariva tutto il mondo, anche se poi forse non c’era niente. Pensavo a questo, quella mattina. Rimuginavo su quanto eravamo arrivati lontano. Siamo andati in giro per il cosmo e la mente, parlavamo una lingua tutta nostra, come se fossimo indigeni di un’isola che conoscevamo solo noi. Ma poi siamo tornati indietro. Come una doccia fredda, il mondo ci è caduto addosso. Ero seduto nella sala d’attesa del consultorio. Non conoscevo nessuno, non sapevo chi chiamare. Dentro l’ambulatorio, in qualche posto di quell’edificio, c’eri tu con tua mamma. Io mi sentivo indifeso, povero e stupido. Non so spiegare in quel momento quanto mi sono sentito piccolo. Stavo seduto, chiuso nel mio mondo, varando tutte le possibilità in cui quella situazione si sarebbe potuta evolvere, una volta che saresti uscita. Non potevamo tenerlo. La mia vita sarebbe finita. Speravo che non l’avremmo tenuto, anche se non avevo alcun potere per decidere di questo. E mi facevo schifo, a pensare questa cosa. Ma non sapevo più a cosa pensare. I miei non sapevano niente. Io avevo sedici anni e avevo saltato la scuola. Mi guardavo intorno e capivo che non c’entravo più niente, con tutta quella normalità. “È incinta. L’hai messa incinta”. Silenzio. Sua mamma era con lei, erano appena scese dal primo piano. “Come facciamo adesso, mamma?”. “Cosa vuoi fare, stupida? Cosa volete fare, che siete due tossici? Si abortisce e basta. E a te non ti voglio più vedere. L’hai fatta provare a mia figlia. Sei stato tu a farla iniziare. Mi fai schifo. Sparisci dalle nostre vite”. Non c’è stato nient’altro. Te ne sei andata, semplicemente. Come ti accorgi d’un tratto, in una giornata di fine settembre, che il caldo è sparito e che il sole non scalda più la tua pelle, non come prima. Era finita, così. Non sapevo se ridere o piangere, se essere felice o no. Avevo solo voglia di andare via. Seduto in quella sala d’attesa ho cercato nelle tasche, il mio biglietto per andarmene, senza fretta; guardavo le persone, i muri e quante cose non mi appartenevano. Mi domandavo se tutti quei viaggi fatti insieme fossero mai esistiti davvero, o se poi sarebbero svaniti, il giorno dopo, come un sogno che sfugge quando ti svegli di soprassalto.

 

Fred Tosse