San, aggiunto al mio nome

Per me “San”, aggiunto al mio nome sarebbe come essere convocato dall’imperatore del Giappone. Non so per quale diavoleria del destino io sia afflitto. Sono nato in Giappone, ma da genitori slavi. A mia mamma le fu offerto un lavoro in Giappone, le pagarono il biglietto, arrivata a Tokyo, il suo visto durava 72 ore, gli aguzzini le addebitarono l’odierno equivalente di 30 mila euro per i documenti. Mio padre fu rispedito in patria; per molto non lo vidi più. Mia mamma stette in un nightclub vendendo il suo corpo per 2 anni. Non appena rimborsato il tutto, un blitz chiuse il locale. Lei era sola con me appena nato. Dovette trasferirsi di città in città per non andare all’occhio visto che eravamo profughi. Per mantenerci faceva la fotomodella veniva  pagata in nero. Quando cammina tra tanta gente nelle periferie più degradate, spiccava fuori dalla folla asiatica come uno scorcio di luce nel buio, forse per molti quella luce entrava nelle fessure del loro carcere interiore. Ciò nonostante, non avendo soldi abbastanza, non eravamo Giapponesi, quindi io non potevo accedere a nessun ente pubblico, ero recluso a casa. Arrivati i miei 16 anni, imparai giusto il minimo Giapponese che usai quando venivo allontana dalla polizia dai frutteti in cui lavoravo… In una cittadina dai neon brillanti, che nel verde delle colline intorno sembrava inchiostro fosforescente rovesciato su un prato inglese, trovammo una parrocchia. Eventualmente, grazie a loro fui messo in regola per andare a scuola. Feci una fatica indescrivibile per restare a passo con la classe. Decisi di dedicare tutti i giorni per studiare; dormivo dalle 10 di sera al 1 di mattina, tutti i giorni, feci così per anni. Non riuscii a rimanere a passo con gli studi, ero troppo indietro, dei medici mi diedero dei farmaci per sedare i miei attacchi d’ira dovuti dal mio esaurimento e dal senso di esclusione, nessuno mi parlava e io non riuscivo ad avvicinarmi ai miei coetanei. Delle ragazze mi si avvicinavano continuamente, ogni volta che parlavo con una, eventualmente smetteva di considerarmi, lasciandomi bigliettini con scritto che i loro genitori l’hanno rimproverata perché non son Giapponese. Ripetendo tante volte gli anni scolastici, conducendo una vita esaustiva nello studio. Mi diplomai, mi diedero una borsa di studio. Andai in Inghilterra, dal metodo di studio acquisito, era il migliore nell’intero campus. Una sera dei ragazzi, mi invitarono al pub, mi ubriacai. Non essendo in grado di gestire la mia rabbia, come fui preso in giro da loro perché non ebbi mai una ragazza, li presi a pugni, mi scaraventarono per terra, come mi rialzai feci per allontanarmi, presi un ombrello e tolsi la vista all’occhio di uno di loro. Stetti in carcere, fui poi trasferito nel carcere Moldavo dove ricevetti la nazionalità. Li mi drogai senza contegno, con i soldi di mio padre, dato che fu contattato da mia madre che era stata messa in un centro per profughi in Giappone, in attesa di tornare in Moldavia. Mio padre conosceva SanPatrignano. Fui trasferito in percorso li, dove con tante fatiche ho lavorato su me stesso conoscendomi, stando finalmente in compagnia che prima non conoscevo; li riuscii pure a laurearmi.

Benedetto