Box numero 17

Avevo conosciuto V. nei bagni della stazione di Santa Maria Novella. Doveva essere una bellissima ragazza, se non fosse stato per l’eroina che piano piano la stava consumando e le sciupava i lineamenti. Aveva 18 anni, tre più di me, ed un cane, Riot, un bellissimo Rhodesian che ci ha scaldato e protetto durante tutte le notti passate per strada

Riot era un cane molto dolce e giocherellone, e si vedeva che era ormai abituato anzi, rassegnato, direi — a stare ovunque. Era l’ombra della sua padrona. Con Riot le giornate passate a bighellonare in giro in cerca di qualcuno che ci allungasse una busta ci passavano meglio, e ci faceva compagnia soprattutto durante le ore di scollettamento davanti ai supermercati. Era anche un cane protettivo, che andava sempre in nostra difesa quando scoppiavano le risse. Sì, perché quando bevevamo litri di vinaccio insieme ai barboni del quartiere, bastava un niente per farci andare tutti fuori di testa e iniziare a litigare per pochi spicci. In quel periodo, V. ed io avevamo trovato un posto, dove andare a rintanarci quando non eravamo in giro: il Box 17. Era un casottino, di due metri per due, in mezzo ai binari della ferrovia, molto funzionale per la vita che stavamo facendo.- Prima di arrivarci, dovevi percorrere chilometri. Eravamo state portate lì, mesi prima, da uno di quelli che ci allungava la roba, che poi dopo qualche giorno non si era fatto più vedere. Probabilmente era stato arrestato: a queste persone ogni tanto succedeva così, una soffiata e sparivano e da un giorno all’altro non li vedevi più. Il box 17 diventò il nostro rifugio per mesi: lì ci andavamo a fare, e ci portavamo anche tutte le persone che trovavamo ciondolanti nei pressi della stazione; persone con cui potevamo dividere le buste, o che ci allungavano qualcosa in cambio di un posto dove poter collassare tranquillamente. In teoria pensavamo che la polizia lì non ci potesse arrivare: nessuno avrebbe speso del tempo per andare ad arrestare due tossiche rifugiate in uno stanzino. Quindi il problema non ce lo ponevamo proprio. Anzi, pensavamo persino che lì nessuno ci vedesse: e questo ci bastava (la cosa poi mi fu smentita anni dopo da mia madre, che fu chiamata in commissariato a vedersi uno dopo l’altro i miei filmati. Ma questo non è rilevante). Ritorniamo a V. In quel periodo avevo deciso di lasciare la scuola, e anche la mia attuale compagnia: ormai erano diventati noiosi, si facevano tutti solo un sacco di canne e di ciloom. Sì è vero, andavamo anche ai rave, ma solo nei weekend e quando riuscivamo a organizzarci con i mezzi. Io già da qualche tempo usavo l’eroina, ma nessuno sapeva che lo facevo tutti i giorni. In compagnia, comunque, non mi guardavano più di buon occhio. Qualche mese prima avevo anche rubato dei soldi dal portafoglio di un mio amico, in uno dei tanti pomeriggi in cui eravamo insieme a casa a giocare alla play. Quel giorno me lo ricordo particolarmente bene: come un topo, ero entrata di soppiatto in camera del mio amico, e mi ero messa ad aprire tutti gli East pack e i portafogli dei ragazzi. Dopo vari tentativi, avevo finalmente trovato 100 euro. Due secondi dopo ero sul terrazzo a darmi un appuntamento con il mio amico L. . Ovviamente, essendo ancora minorenni, avevamo tutti soldi contati: in quel modo mi scoprirono e, da quel momento in poi, mi allontanarono. Così decisi di sparire. Negli ultimi tempi in compagnia ci divertivamo a fare musica tutto il giorno, con dei programmi sul computer, e anche a me piaceva. Io amavo la musica, e quello era un modo molto divertente per farlo. Ma, nonostante questo, sentivo che dentro di me c’era qualcosa che non andava: percepivo una grande insoddisfazione ed un bisogno sempre più grande di evadere. Io ero l’unica ragazza, quindi ormai mi consideravano tutti come un amico, come uno di loro. Spacciavo, fumavo, facevo musica e andavo alle feste. In più non avevo il ragazzo. Loro facevano sempre commenti sulle altre ragazze della scuola, e io mi sentivo sempre un pesce fuor d’acqua, non mi sentivo mai presa in considerazione come le altre. E  ci stavo male. Anch’io volevo essere una di quelle di cui i ragazzi parlavano. Non volevo essere nominata solo perché spacciavo o perché mi drogavo. Ma questo non succedeva mai, e io ci stavo sempre più male. Avevo un gran bisogno di trovare uno stato di quiete dentro di me, di accettarmi e di riuscire a stare bene in mezzo a chiunque, senza sentirmi sempre necessariamente da meno, o più brutta, o meno intelligente. Anche la situazione a casa in quel periodo non era delle migliori. Tutto il mio malessere probabilmente era percepito e assorbito da tutti. Avevo già cambiato scuola perché mi avevano bocciata: era una scuola che non mi piaceva, quindi non ci andavo mai. I miei, anche per questo, stavano diventando veramente assillanti. In più, con il fatto che fumavo e dormivo continuamente, erano sempre lì a incalzarmi sul fatto che non facevo niente della mia vita, e che loro non mi avrebbero tenuto a casa così per altro tempo. Più me lo dicevano, più io cercavo di annullarmi con qualche droga. Era diventato tutto insostenibile. Avevo bisogno di altro, e quell’altro lo trovai sempre di più nella strada, nell’isolamento e nell’eroina. Ormai queste tre cose erano diventate le mie compagne di viaggio. V. fu una “bella svolta” in quel periodo. Iniziò a fare una vita che non avevo mai provato: senza orari, senza casa, libera da vincoli e da regole. Quei mesi, alla fine, furono anche divertenti. Vivevamo per strada, e avevamo formato un gruppetto di persone come noi con cui passavamo le giornate. Ci alzavamo tardi, andavamo a ‘scollettare’ in centro, poi alla stazione a farci, poi di nuovo in giro a rubare gli alcolici, e poi a bere fino a che, storditi, non collassavamo su qualche marciapiede. L’alternativa era stare in piazza le ore, andando ogni tanto a farci nelle stradine. Andò avanti così per mesi. Quando V. entrava in astinenza, non la sopportavo proprio: io un po’ riuscivo a reggere, lei invece si lamentava in continuazione. In questo modo, toccava sempre a me fare gli affari sporchi. Iniziava a starmi tutto stretto in quei momenti,  non volevo condividere più niente con lei quando stavamo male. Non sopportavo nemmeno il suono della sua voce, o quando urlava a Riot. C’erano dei giorni in cui, per ore e ore, giravamo per la città senza meta, rincorrendo e supplicando gli spacciatori in attesa di qualcosa. Spesso erano buchi nell’acqua. Il box 17 iniziava pian piano a essere conosciuto da quelli della zona, e utilizzato anche da altri. Quella che all’inizio pensavamo fosse una grande idea, alla fine ci si ritorse contro. Ormai ci volevano andare per farsi o per tagliare la roba e fare le buste: a me e a V. non ci pensava più nessuno. Una notte entrammo nel box e ci trovammo dei ragazzi: uno di questi si alzò e ci puntò un coltello, intimandoci di andare via. Con grande delusione, non ci tornammo più. In zona avevamo combinato mille casini: derubato persone, supermercati. Ormai ci conoscevano tutti. Non potevamo più girare tranquille. Eravamo due tossiche disperate, con un povero cane co- a seguirci, che ora non avevano più nemmeno un posto dove rifugiarsi la notte. Una mattina prendemmo un autobus, con altri due ragazzi conosciuti la sera prima in piazza, e andammo fino fuori città in una casa abbandonata conosciuta da loro. Avevano con sé un po’ di roba, per quello li seguimmo: eravamo in astinenza, quindi meglio che stare da sole. Mi svegliai la mattina e mi guardai intorno: una stanza vuota, con i muri ammuffiti. Una puzza terribile di vino e di sporco, siringhe e fazzoletti per terra, schifo ovunque. Accanto a me due ragazzi, tutti sporchi, uno appoggiato al muro e l’altro avvolto in un sacco a pelo sudicio. Mi levo il braccio di uno dei due dal collo e mi alzo. Lo squadro dall’alto. È pure guercio, e nemmeno me n’ero accorta. Entrambi sembravano morti, avevano le facce di un colore grigiastro a dir poco spaventoso. Mi guardo. Anch’io ero sporca, puzzolente, e con gli stessi vestiti da settimane ormai. Non avevo soldi, mi frugai in tasca per cercare il telefono senza trovarlo. Probabilmente mi ero venduto anche quello. Cammino lentamente verso l’altra stanza, sto male e voglio andare via da quel posto. Volevo prendere V. e Riot e tornare in città subito a cercare qualcosa. Ma V. non c’è . Sento un guaito, vado fuori barcollando, vedo Riot. Della sua padrona non c’è traccia. Tranquillo, non ti lascio qui da solo, tu vieni con me. Gli lego il guinzaglio, lui mi guarda languidamente e iniziamo a incamminarci in quella strada di campagna, senza una meta. Cosa c’entro io con tutto questo? Come mai sono arrivata a questo punto? Mi sento persa. Dopo aver camminato diversi chilometri, arriviamo in città: da lontano scorgo una cabina, e le mie gambe si dirigono senza controllo, senza forze, in quella direzione. Cerco qualcosa in tasca, ma niente. Fermo un passante, mi faccio dare cinquanta centesimi. La mia intenzione sarebbe quella di farmi, ma le mie dita riescono a comporre solo un numero. “Papà, sono io. Voglio tornare a casa. Tutto questo non mi appartiene, non ce la faccio più. Ti prego, vienimi a prendere, ho bisogno d’aiuto”.

Articolo  di Valentina Lisi tratto da “Sanpanews-Voci per crescere” N° 66 marzo 2022
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