Ogni giorno

Pensi che non mi piaccia? Non me ne frega niente. Pensi che il problema sia come mi guardano i maschi e il fatto di non essere bella? Non mi interessa. Pensi che quello che dici sia intelligente, che io ci creda? Credi davvero di farmi male?

Me ne rendo conto che è tutto un’enorme bugia, che non ha senso Ogni mattina mi sveglio, vedo mia sorella e poi mia madre che viene a cercarmi. Sento l’odore della colazione e mi nausea, ripenso a quello che ho fatto la sera prima, dopo cena. C’è troppa gente che si aspetta qualcosa da me. La mia famiglia, le insegnanti, i miei compagni, perfino l’autista di quel maledetto autobus, si aspettano che io adesso mi vesta, vada a scuola e che faccia la mia parte. Ma qual è il mio ruolo? Permettere a quelle due insensibili e sfigate di prendermi in giro? Mentre tutti gli altri guardano? Nessuno mi guarda negli occhi ma io so benissimo cosa pensano, cosa dicono di me. E mi chiedo: com’è possibile che nessuno veda? Perché noi ragazzi le vediamo queste cose, le sappiamo tutte, mentre i prof non se ne interessano? Mi sono data la mia risposta. Io sono un numero, un ruolo da interpretare, per tutti loro. C’è troppo casino in una persona come me, per provare a metterci mano, per aiutarla. Ogni mattina mi sveglio e penso al ruolo che devo interpretare. Ogni giorno penso tutto questo e non lo dico a nessuno. Ogni giorno mi faccio male. Nessuno si immagina che una ragazza di tredici anni possa già essere arrivata a questo punto. Ogni giorno, per un momento, mi chiedo se lo faccio per cambiare, per essere accettata dagli altri, oppure se lo faccio solo per farmi male, per punirmi. Non so spiegarlo a parole… ma il “male”, mi fa stare bene. E forse è per questo che ogni giorno non mi rispondo, e continuo ad andare avanti. Mi preparo, come ogni giorno, ad affrontare la realtà. Vestiti neutri, così non attirerò troppo l’attenzione; cuffiette, con la mia musica preferita, in modo da non sentire le risatine sommesse delle altre ragazze; sguardo basso, per non incrociare quello di nessuno. Realizzo che tutto quello che faccio è finalizzato a rendermi invisibile. Arrivo in classe nel minor tempo possibile, allenata a evitare tutto ciò che potrebbe farmi notare, perché se ti notano ti massacrano, e in questo sono eccezionali. Mi siedo al mio banco, mi isolo fino all’inizio della lezione. Oggi però, non sono i professori a parlare, ma due ragazzi di San Patrignano che vestono magliette arancioni. Un incontro di prevenzione on line. Uno di loro dice che ci racconterà la storia della sua vita. Inizia a parlare. Io mi stringo nella mia felpa. Ascolto, mi immergo. E mi fa male. Io “sento quello che dice”. Non sta raccontando quello che gli è successo, non solo. Quello che pensa, quello che prova, mentre le cose accadevano, la sua vita andava a rotoli, mentre faceva le sue scelte. Questi ragazzi parlano di loro, ma anche di me. In classe c’è un brusio di fondo, ma lo sento sempre più  ovattato, e nelle orecchie mi risuona una sola parola, così vera, così sbagliata: bullismo. Vengo travolta da tutte quelle emozioni che ho cercato di reprimere in questi anni, è troppo da sopportare. Alzo la mano. Mi faccio notare. Sento il battito del mio cuore nelle orecchie, e il rumore dei miei passi mentre mi avvicino al computer, ma non presto attenzione ai commenti dei miei compagni, ed è la prima volta che mi concentro solo su me stessa. Mi libero. “Secondo me, i bulli, non sono altro che persone con molte fragilità, in costante ricerca di attenzione, che spinti da questa bramosia di considerazione, spesso si trovano ad attaccare gli altri. Ora lo capisco, ma questo non rende più facile sopportare le cattiverie e le provocazioni di cui ci rendono vittime. Sfruttano le nostre fragilità per contrastare le loro, ed io gliel’ho concesso. Ho permesso loro di ferirmi, portandomi a non accettarmi, e peggio, ad odiarmi, fino a volermi cambiare. Lo so, non ho niente che non vada bene, se non l’essere sensibile. Sono stanca della loro crudeltà, di stare male per compiacere qualcun altro, e di non valorizzarmi per quella che sono. Perché io, in fondo, mi piaccio e non vedo perché dovrei, o meglio, per chi, dovrei cambiare. Da adesso in poi voglio essere solo me stessa, fregandomene delle ‘frecciatine’ che mi manderanno e delle battute acide che mi faranno, so che non sarà facile, ma credo ne valga la pena”. In quel momento mi sono resa conto del silenzio che c’era in classe. Io, la sfigata, quella “strana”, avevo ammutolito i miei compagni. Io che per anni sono stata sempre in silenzio. Sono tornata al posto, accompagnata dallo sguardo di tutti. Tutti mi vedono, ma non è un problema, perché da oggi non mi nascondo più. Il fatto di essere riuscita a dirlo non è stato solo liberatorio, è stato anche un modo per chiedere una mano, per dire ad alta voce che c’era un problema, e che da sola non ce la facevo ad affrontarlo, non più. Ho cambiato il mio nome, ho omesso i particolari, ma volevo scrivervi, raccontarmi. Come voi avete fatto con me. E forse la mia esperienza potrà servire a qualche altro ragazzo o ragazza, per capire quello che io non voglio più dimenticare, dopo l’incontro con voi. Noi non siamo soli.

Articolo di Sofia tratto da “Sanpanews-Voci per crescere” N 62 novembre 2021
Per scoprire come riceverlo: https://www.sanpatrignano.org/sostienici/sanpanews-voci-crescere