Uno squillo

Rispondo al cellulare. Oppure no. Sono confuso. Spero di sentire una voce, quella voce. Ma potrebbe essere qualcun altro. E sarebbero problemi grossi, che non saprei come risolvere

Driiiin,  Driiiiin. Squilla il telefono. E’ un numero che non conosco.

Mi paralizzo, mi si ghiaccia il sudore. Sto aspettando che mi chiami Ibra, ormai sono due ore che è andato a prendere la roba. Sto male, mi fanno male le ossa, non ho la forza di alzarmi. Non è il suo numero questo. Forse mi sta chiamando da quello di un suo paesano? Che palle. Aspetterò che smetta di squillare, poi proverò a richiamarlo sul suo. Spero mi risponda.

Driiiin Driiiiin.  Squilla il telefono. E’ un numero privato.

Non ce la faccio più ad aspettare, ho bisogno di uscire e farmi, ormai è già troppo che aspetto. Non posso rispondere, non so come fare. Sono giorni che mi cercano. Mi trascino verso la porta, guardo dallo spioncino. Sul pianerottolo non c’è nessuno. Vado verso la finestra della cucina, mi sporgo, guardo giù. C’è qualcuno. Prendo sul comodino la mia agenda, la apro, non mi ricordo più a quante persone devo rendere i soldi. Ho una lista infinita, troppa gente mi sta cercando. Ma ho solo 50 euro, e li devo tenere per me, devo andare avanti in questi giorni finché non vado a caricare.

Driiiiin driiiin driiiiin. Non ce la faccio più a sentire questo rumore, ora lo spacco questo telefono. Tolgo la scheda, la butto in terra nel lerciume. Frugo nelle tasche, meno male ho l’ultima busta. Abbasso le luci, chiudo le persiane, così do meno nell’occhio. Prendo tutto il necessario, mi stendo sul letto… dopo penserò a come fare. Tanto un giorno in più. Che mi potrà mai succedere.

Driiii Driiiin.  Squilla il telefono. Mi sveglio di soprassalto.

Forse è mio padre che mi chiama? Guardo lo schermo, nessuna chiamata ricevuta. Chissà perché pensavo fosse lui, forse lo stavo sognando. Ormai sono anni che ha il mio numero, sono anni che spero mi chiami, almeno per sapere come sto. L’ultima volta che ho visto mio padre è stato qualche mese fa. In tutto l’avrò visto tre volte. Pensare che la prima volta che l’ho conosciuto avevo quattordici anni! Ma mica per colpa mia, è lui che non si è mai fatto vedere prima. Lui sa che mi faccio di roba adesso, gliel’ho detto io, ma non mi sembra ci dia peso. Forse perché anche lui si fa, però di coca. Probabilmente non pensa che sia un problema. Quando l’ho visto, era pieno di tic e di spasmi, e sopra le righe come sempre: per forza, con tutto quello che usa! Mi raccontava un sacco di storie dei suoi giri di droga, sui soldi, sullo spaccio. Ascoltavo i suoi racconti come se fossero storie inventate, non credevo a una sola parola che usciva dalla sua bocca. Vedevo che non stava bene e, quando era così, la sua presenza mi dava fastidio. Ultimamente non davo più peso né alla sua salute né ai suoi racconti: il nostro incontro era finto, a me servivano i soldi e basta. E lui sapeva che per tenermi buono me li doveva dare. Era uno scambio alla fine. Il resto non contava.

Driiiin Driiiin. Squilla il telefono. E’ mia madre. Mi dice che è appena andata a vedere i risultati a scuola e che non mi hanno passato al 5° anno. Io già lo sapevo. Mi chiede dove sono, percepisco agitazione dalla sua voce. Mi dice che devo prendere la prima corriera e tornare subito a casa perché dobbiamo parlare: dopo pranzo andiamo dal preside, quindi devo muovermi. Poi inizia a urlare che è stanca, che non ce la fa più a gestire i miei casini da sola. Ma cosa cazzo pensa di saperne lei? Non può nemmeno immaginare come ho vissuto io tutti questi anni a scuola! Adesso sono grande, ed esco con quelli di quarant’anni che mi proteggono. Quindi me ne frego. In classe ho tutta gente della mia età, superficiale, per questo non mi trovo con loro; quegli altri, invece, mi fanno da padre.. quello che non ho mai avuto. Tutti mi conoscono, tutti sanno anche la sua di storia, e quando sto con quelli più grandi gli altri girano alla larga, mica si permettono di prendermi in giro! Io così sto bene. Ormai non è più come alle elementari: lì ero da solo, indifeso, mi ero appena trasferito e non conoscevo nessuno. Ero lo “straniero della valle” e, viste anche le mie origini, me lo facevano pesare ogni minuto. All’inizio non potevo girare nemmeno in corriera, perché ogni minuto qualcuno mi urlava ”NEGRO!”. Oppure mi seguivano fino a scuola aspettando l’occasione giusta, solitamente quando le maestre non vedevano, per umiliarmi e offendermi.  Ora, invece, la storia è cambiata. Prima ero sempre rabbioso e mi sfogavo in classe, prendevo note in continuazione. Adesso sto con quelli più grandi e preferisco stare in giro a fumare e bere con loro, non pensando a quello che mi aspetta a casa.

Driiiin Driiiiin. Squilla il telefono.

E’ San Patrignano, mi dicono che fra due giorni entro in Comunità.

Mi alzo dal divano e, barcollando, raggiungo mia madre in cucina. Le comunico la notizia, rimanendo impassibile: dentro di me non riesco a sentire nessuna emozione. Avrei voluto dirle qualcosa di più, abbracciarla, chiederle scusa, piangere insieme a lei, ma niente. Lei invece mi abbraccia, sussurrandomi “Vedrai che starai bene, Nicola ”.

Sono confuso. Una parte di me sa che sto facendo la cosa giusta, l’altra è solo stanca di vivere: nonostante questo, ho solo bisogno di drogarmi. Però voglio provarci, non ho più scelta. Mia madre forse non sa che sono due settimane che sono tornato a casa solo perché sono indebitato fino al collo. Che sto entrando in Comunità perché sono stufo, stanco di non dormire più la notte per paura che la gente mi venga a cercare. Sono stanco di non poter più rispondere al telefono per paura delle persone a cui devo rendere soldi. Lei non immagina del sollievo che ho provato quando ho varcato la soglia di casa: è come se fossi stato alleggerito di mille pesi. Non ho fatto altro che dormire in questi giorni, erano anni che non mi succedeva. Ero finalmente al sicuro.

La stessa sensazione di pace l’ho provata quando sono entrato a Sanpa. Nessuno sarebbe più venuto a bussare alla mia porta per quattro lunghi anni: finalmente sarei stato tranquillo. E concentrato solo su di me.

San Patrignano mi ha ridato la voglia di vivere. Avevo ventuno anni quando sono entrato, non avevo speranze né certezze. Adesso ne ho quasi venticinque, e domani sarà il grande giorno.

Driiiii Driiiin.  Squilla il telefono. E’ mia madre.

“Ciao mamma, sono in treno. Arrivo in stazione tra un’ora, aspettami a casa, non ti muovere”.

Valentina
Tratto da “Sanpanews – Voci per crescere” N°62 Novembre 2021
Per scoprire come riceverlo: https://www.sanpatrignano.org/sostienici/sanpanews-voci-crescere