Fa troppo caldo

Apro gli occhi, è buio. Non capisco dove sono, fa freddo. Mi guardo intorno. Sono all’interno di una macchina. La luce di un lampione penetra dai finestrini e fa schiarire l’abitacolo. È la mia auto! Sono seduto sul sedile dell’autista, ma il mio corpo è steso sul lato passeggero. Fa freddo

Con molta fatica riesco ad alzarmi, guardo fuori e mi rendo conto di essere fermo in un parcheggio, davanti all’azienda del ‘Sigi’. Cerco di capire come sono arrivato fin lì e subito mi torna alla mente Matteo, il barista del bar che frequento in paese. Fin qui tutto normale, ci vado tutte le sere, ma perché sono qui? Sono molto confuso, fa freddo e mi gira la testa. Cerco le chiavi, non le trovo, le mani mi tremano. Allungo una mano verso il cruscotto sotto il volante e un rumore metallico mi rimbomba nella testa: trovate! La chiave dell’auto è rimasta inserita, la giro e avvio il motore. Guardo l’orologio, sono le cinque del mattino.

Metto il riscaldamento al massimo e piano piano il mio corpo irrigidito dalla bassa temperatura comincia a rilassarsi e qualche ricordo in più inizia a riaffiorare. Sono al bancone del bar ‘Il Gambero’; alla mia sinistra c’è ‘Il Bonez’, alla mia destra forse c’è ‘Larry’, davanti a noi un fiume di bicchieri vuoti dietro cui, sorridente, Matteo accenna un balletto al ritmo di “Simpaty For The Devil”. O forse no, questa musica è solo nella mia testa. No, ne sono sicuro, ricordo bene quel momento, ero uscito di casa da poco e aveva squillato il telefono: “Ciao, dove sei?”. Ricordo la mia risposta: “Al solito posto, al bancone”. Era il Bonez, mi avrebbe raggiunto. Mentre questi ricordi abbastanza confusi si fanno strada, metto una mano in tasca e mi accorgo che ho ancora un po’ di erba. Rullo un cannone, lo accendo. La puzza di “orange” invade tutto lo spazio povero di ossigeno. Ora fa troppo caldo, apro il finestrino e, in un attimo, un’ondata di aria fresca mi schiaffeggia. Ed ecco arrivare un altro ricordo.

Esco dal bar, monto sulla mia Ford Escort, ‘L’insetto scoppiettante’, e parto. Accendo lo stereo e comincia il sound, “Ziggy play guitar”. Man mano che mi allontano dal paese le luci mi abbandonano. Imbocco una delle tante strade di campagna della bassa reggiana. Sono solo. Non ho una meta precisa. La canna è finita, non ho né caldo né freddo, ma una strana sensazione mi assale: paranoia. Scuoto la testa ripetutamente per cercare di uscire da questo stato: nulla. Rimango avvolto da questa coltre di malessere. Sono all’ingresso del “Sun Free”, la musica è a palla, di fronte a me due energumeni immensi che mi dicono qualcosa, non capisco cosa. Entro, mi muovo a fatica, mi gira la testa. Raggiungo il bancone del bar e ordino: “Matusalem”. Insieme al rum mi ritrovo davanti una ciotola di praline di cioccolato fondente. Ecco perché ho ancora in bocca questo retrogusto dolce-amaro che mescolato a quello dell’erba ha eliminato completamente la mia saliva. È come se ora avessi in bocca un deserto. C’è un gran casino.

Ricordo molto bene il volto della barista, Sabrina. È carina e gentile, continua a versarmi rum dalla bottiglia che ho vicino. Parla un sacco ma non riesco a capire quello che mi dice, sono quasi ipnotizzato dalla forma praticamente perfetta delle sue labbra. Mentre il mio ricordo è fermo sulle labbra di Sabrina, un gran tonfo mi fa tornare alla realtà. Mi guardo intorno e cerco di capire cosa sia successo. Niente. Non riesco a vedere niente. I finestrini sono completamente appannati. Alzo il braccio sinistro per asciugare il vetro. Paura!!! Mi accorgo di avere il braccio pesantissimo. Vabbè, l’importante ora è capire, capire da dove proveniva quel rumore. Mosso dalla curiosità e non certo dalle mie forze, pulisco tutti i finestrini e mi accorgo che intorno a me c’è il nulla. È scesa la nebbia. Mi arrendo. Sarà caduto qualche rottame all’interno della recinzione della fabbrica. Mi accendo una sigaretta. E con la mente ritorno nel locale.

Sabrina, con i suoi modi gentili, afferra un grosso calice e mi versa da bere. “È Chianti. Piacere sono Mario”. Sono confuso. Chi è questa persona, cosa vuole? In un attimo mi ritrovo in una piccola saletta. Poltrone, tende alle finestre, carta da parati ai muri, tavolini di vetro con telai stilizzati, sembra quasi di essere dentro ad una scena del serial tv di David Linch “Fuoco cammina con me“. Mario parla, parla un sacco. Io non capisco cosa dice o meglio non ricordo. Ad un tratto mi risuona in testa una parola ben precisa: “coca”. Mario mi offre cocaina. Io non rifiuto, chiaro. Ora capisco il perché di quei tavolini in cristallo. Mario è il padrone del locale e quello è il suo ufficio. Non ricordo il tempo in cui sono rimasto rinchiuso in quella stanza ma nulla potrà mai cancellare dalla mia mente il suo volto. Il neo che domina il suo sorriso. L’occhio socchiuso e lo sguardo intenso di Mario. Sta facendo giorno, spengo la macchina. Il cinguettio degli uccellini annuncia il mattino. Le luci dei lampioni tra poco si spegneranno.

Ho sempre più freddo. Sento la muscolatura intorpidire minuto dopo minuto. Una goccia di sudore scende dalla mia fronte. Perché sudo, sto sentendo freddo! Apro l’uscio e mi trovo davanti un piccolo corridoio. I disegni quasi psichedelici sulle piastrelle mi disorientano. Una luce fioca color giallo ocra illumina una porticina molto stretta. La apro e la prima persona che vedo è Sabrina che mi regala un sorriso. Ok, bevo un’ultima cosa e me ne vado.

Mi serve da bere un altro ‘Matusalem’. Sono rapito dai suoi movimenti delicati. Sarò innamorato? No, sono solamente allucinato. Secco ‘la staffa’ e abbandono lo sgabello. Una strana sensazione d’inadeguatezza mi invade. Paranoia. Raggiungo l’uscita e saluto i due bestioni che vigilano la porta. Mi dicono qualcosa ma, come sono solito fare, nemmeno provo a capire cosa mi stiano dicendo. Proseguo. All’improvviso sento stringermi il braccio sinistro. Una forza incredibile mi blocca. Mi giro. È “Il Ganzo”, il buttafuori del locale: “Devi pagare amico!”. Si fa sempre più chiaro. Per fortuna mi trovo in una strada a dir poco secondaria.

Butto uno sguardo all’orologio. Sono le sei e ormai sono qui da un’ora. Gli occhi mi lacrimano. Esco dal parcheggio. Ricordo di aver parlato con qualcuno ma non ho la più pallida idea di chi fosse. Mi fermo al primo stop. Riparto ma non ricordo molto. Le luci dei fari delle auto che incrocio mi accecano. Una strana eco di clacson mi fischia nelle orecchie. Grossi lampioni illuminano ogni cosa di uno strano arancione. Un semaforo lampeggia in sincronia con l’insegna di un locale. Lo supero e davanti ai miei occhi scorre un nome: ‘La Macchia english pub’. Adesso è tutto chiaro, sono a Villarotta. Mi trovo a un paio di chilometri dal punto esatto in cui ero parcheggiato, ma il tragitto da quell’incrocio a qui non lo ricordo per niente. Ormai è pieno giorno e non ricordo ancora se sia sabato o domenica. Sto male. Mi devo “fare”. Il panico mi assale, non so se ho ancora qualcosa oppure se è tutto finito. Apro il cruscotto e comincio a rovistare. Sento il cuore che batte con una prepotenza assurda, sembra di avere, dentro di me, una batteria che suona a sette ottavi. Sono chinato sul fianco destro e la schiena mi si sta spezzando. Non la trovo. Quante carte inutili mi stanno scivolando tra le mani. Eccola, la mia scatoletta! Ok, la temperatura del mio corpo ritorna stabile in un attimo. I miei occhi smettono di lacrimare. Anche il dolore al braccio sinistro provocatomi dal Ganzo è sparito.

Ora non sto più male. Guardo per l’ultima volta l’ora, sono le sette meno dieci. Orario perfetto, Matteo ha già aperto il bar. Parto alla volta del paese e in dieci minuti raggiungo la piazza. Smonto dalla macchina e non sento nulla. Non sento gli uccellini cinguettare, non sento odori nell’aria, non ho più neanche dolori fisici ma soprattutto non ho più pensieri. Sto bene! O meglio credo di stare bene. “Buongiorno Matteo, una birra”.

Emilio

Tratto da “SanpaNews – voci per crescere” n° 28 – gennaio 2019
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