Seduto qui con te

Conosco Alberto da quando era bambino. La sua mamma ha iniziato a portarlo al parco quando stava ancora nel passeggino. Mi sarebbe tanto piaciuto vederlo, nel suo fagotto. Lo vedevo solo da lontano, arrivava sempre dal sottopassaggio della stazione

Con la mamma si fermava allo scivolo, passava qualche minuto sull’altalena, poi insieme venivano qui da me. Sua mamma si sedeva qui, accendeva una sigaretta e guardava le persone, silenziosamente. Chissà a cosa pensava in quei pomeriggi. Non lo saprò mai. Quello di cui però sono sicuro, è che in quei momenti tu restavi lì a guardarla tutto il tempo. Mi ricorderò sempre la prima volta che sei venuto da solo. Ero sicuro che fossi tu. Venivi a fare i soliti giochi da tanti anni, stavi sempre sullo scivolo e poi qualche minuto sull’altalena. Stavi con i tuoi amici, ridevi e scherzavi, finché a un certo punto venivi da me. Non cambiavi mai. Io non mi intromettevo, lasciavo che facessi merenda con tutti gli altri, con i succhi e i panini che faceva tua mamma. Più continuavi a parlare, più io capivo come fosse veramente Alberto, quale fosse il suo piatto preferito, il suo colore preferito, le cose che lo facevano arrabbiare e come fosse la situazione a casa. A casa non andava bene. Eri ancora un bambino, anche se non eri più così piccolo, quando ho visto le tue prime risse. Non era quasi mai colpa tua, non è colpa di nessuno. È la periferia. Con il tempo però hai imparato a diventare grande, anche se non lo eri. Ti vestivi in modo strano, parlavi in modo “figo”, come dicevi tu. In effetti a me piacevi sempre, continuavo a seguire tutte le storie della tua vita, cercando di far quadrare tutto ascoltando bene i tuoi discorsi con i tuoi nuovi amici. Ma era difficile. Da quando uscivi con quella gente avevi smesso di dire come stavi, cosa volessi fare il giorno dopo, quali fossero i tuoi sogni. Parlavi sempre di altro, mai di te. Eri solo in seconda media quando sei arrivato qui, quella mattina. Dovevi essere a scuola! Cosa facevi qui? Qui ci si viene il pomeriggio! Era freddo, tu vestito coi tuoi pantaloni larghi sopra il pigiama, con quel giubbottone di tre taglie più grande, ti sei seduto qui e mi hai appoggiato addosso una birra. Non sapevo cosa dire. In realtà in quel momento ero contento di non poterti dire niente. Solo allora mi resi conto che qualcosa non andava. Un giorno sei arrivato qui molto arrabbiato. Sembravi quello di sempre, c’erano i tuoi soliti amici, ma io ti conosco troppo bene. Ero sicuro che fosse successo qualcosa, perché la prima cosa che hai detto è stata “Ragà, andiamo a prendere delle birre, del vino, che oggi è stata proprio una gran giornata di merda”. Uno dei tuo ‘amiconi’, senza chiederti niente, ha tirato fuori uno spinello. Non immagini quanto io abbia sperato che tu te ne andassi via, per sempre. Anche se poi non ti avrei visto mai più. Eri seduto proprio qui, come sempre. Dove una volta mettevi il tuo succo, ora c’erano cartine, cartoncini, una birra. Quando hai preso in mano quella canna ti ho guardato bene. Vedevo che non sapevi cosa fare. Ma ormai eri lì. Era come se non potessi alzarti e andare via, come se non ci fosse più scampo. È stato impercettibile. Hai alzato appena le spalle, poi hai fumato. Da quel momento eri sempre al parco, sempre qui con me. Ci sono stati tanti giorni in cui non sei andato a scuola, tante sere in cui stavi qui, al posto di tornare a casa, dove dovevi stare. Non volevi più tornarci a casa. Volevi stare sempre qui, con tutta quella gente che andava e veniva, per parlarti, stringerti la mano e andarsene poco dopo. Mi chiedevo spesso se te ne rendessi conto, che tutto ciò che avevi era come una maschera. I tuoi vestiti, il tuo sorriso; il tuo modo di fare, di parlare. Ma tu volevi ridere, stare in giro. Non volevo più che venissi al parco. Non volevo più vederti. Anche se ti volevo bene. E ahimè, il mio desiderio si avverò. Una sera quel parco di periferia, illuminato dai lampioni arancioni e dalla stazione lì sopra, cominciò a illuminarsi di azzurro, a scatti. Erano venuti a prendervi. Gli altri sono scappati, tu hai esitato un poco, quel tanto che bastava a far sì che ti prendessero. I carabinieri ti hanno messo in quella macchina, tu avevi solo quindici anni, non hai fatto nemmeno resistenza. Non potevi saperlo, ma io ti ho salutato. Senza piangere. Ma con tanta amarezza. Ho sempre pensato a te, Alberto, non so perché. Anche nel lunghissimo tempo in cui non ti ho visto c’era sempre un momento nella mia giornata in cui pensavo a dove fossi, a cosa stessi facendo. Pensavo spesso che le cose dovessero andar male alle persone che vivono qui, in questo buco dimenticato dal mondo, di fianco alle fabbriche e alle colline, a mezz’ora dalla città. Le persone che ho visto nella mia lunga vita crescono, a volte le rincontro dopo tanto tempo portare i loro bambini a giocare. Ma se passano troppo tempo qui con me, poi si perdono. ‘Chissà se sono una buona cosa’, mi chiedo spesso. Me lo sono chiesto quella sera in cui sei tornato qui. In realtà era notte fonda, c’era solo silenzio e una luce arancione, intorno a noi. Pensavo di sognare, invece eri proprio tu. Ti ho riconosciuto immediatamente. Eri completamente sfatto, magro, avevi la barba lunga e puzzavi di alcol. Eri irriconoscibile, ma io ti ho visto crescere, non potevo sbagliarmi. Ti sei seduto qui e ti sei messo a piangere come un bambino. Non sapevo cosa dire. Non capivo perché fossi tornato proprio qui, alle tre del mattino di un martedì. Non so cosa facessi, dove vivessi. Non sapevo niente. Ero arrabbiato con te. Ero arrabbiato perché ti volevo bene. E infatti, anche se forse non lo saprai mai, stavo piangendo anche io. Ho vissuto molte vite, attraverso le persone che vengono a trovarmi, a passare un po’ del loro tempo qui. Ogni volta mi emoziono, mi perdo dietro alle cose che accadono, che passano e se ne vanno, spesso per non tornare mai più. È brutto porsi tante domande e non chiedere mai niente a nessuno; ma forse, se anche ne avessi la possibilità, non parlerei tanto di più con le persone. Avevo solo il desiderio di rivedere tutti, da grandi, soprattutto di rivedere te. Avrei voluto passare ancora un po’ di tempo qui, vederti arrivare di nuovo. E anche questo desiderio, un giorno, si è avverato. Era mezzogiorno e un quarto, era un bel giorno di primavera. Sei arrivato dal sottopassaggio, come sempre. Come allora. Io ti guardavo da lontano, non credevo che fossi tu. Anche stavolta eri irriconoscibile, ma in senso buono. Eri vestito bene, eri in carne, eri proprio belloccio. Ma soprattutto sorridevi. Si vedeva dalla tua faccia che stavi bene, saresti anche potuto passare di lì e andartene per sempre, a me sarebbe andato bene così. Ma tu, Alberto, sei passato di lì e ti sei seduto proprio qui. Hai tirato fuori un panino e un succo, quello all’albicocca, il tuo preferito. Hai mangiato in silenzio, guardandoti intorno, guardando quello che facevano le persone. Stavamo lì, godendoci il vento tiepido, senza guardare gli orologi, come due vecchi alla stazione che guardano i treni che passano. Quando hai finito di mangiare hai fatto un fagotto con tutti i rifiuti e l’hai buttato, poi hai tirato fuori dalla tasca un foglio. E lì, dopo una vita intera, sei stato tu che hai parlato a me. «Ciao panchina, panchina cara. Sono sempre io, quel pirla che hai visto crescere. In realtà ne vedi davvero tanti, tu, chissà se ti ricordi di me. Forse sono impazzito, ma devo proprio dirti una cosa, te lo devo. Sai che non sono di tante parole, volevo solo dirti che sto bene. Anche se avevo preso una brutta strada, oggi sto ricominciando a inseguire i miei sogni. Sono stato a San Patrignano, perché ho avuto bisogno di tempo, per capire chi fossi davvero, cosa mi faceva stare male. Non ho ancora tutte le risposte, ma ho trovato tante cose che amo e che mi fanno stare bene. Dopo tanto tempo ho capito che tutto quello di cui avevo bisogno ce l’ho sempre avuto. Ecco tutto. Volevo solo dirti che sto bene. Devo chiederti scusa, panchina, per quello che ti ho fatto vedere. Mi dispiace col cuore. Voglio dirti che io mi sono sempre accorto di te, che nei momenti più importanti della mia vita eri sempre qui con me, silenziosamente, voglio dirti che tu e questo luogo siete indelebili, dentro di me. E che, anche se sembra nulla, è impagabile poter passare un altro po’ di tempo, seduto qui con te».

Fred Tosse
“tratto dal Sanpa News – voci per crescere” n° 44