Come aquile che sfiorano le nuvole

Come mio solito, non facevo mai vedere ciò che provavo. Dovevo restare indifferente rispetto alle emozioni più belle o a quelle più dolorose

Durante una delle mie tante serate passate tra i locali del centro, ho ritrovato il mio carissimo amico, Nadir. Da piccoli eravamo inseparabili. Con lui avevo condiviso tutto. Emozioni, pianti, ginocchia sbucciate. Risate infinite, quando correvamo facendo finta di volare come aquile che sfiorano le nuvole. Io però non ero più quella bambina: non piangevo e non ridevo più. E anche lui era cambiato. Lo sapevo. In giro si diceva che si bucava. Ci siamo rincontrati e tutto è ricominciato. In maniera diversa, decisamente diversa. Presto abbiamo cominciato ad andare ai rave, siamo tornati a stare insieme ogni giorno, come quando eravamo bambini. Ma i giochi erano cambiati. Penso di essermi anche innamorata di lui, ma non gliel’ho mai detto. Non volevo far vedere quello che provavo. I sentimenti li giudicavo una cosa per le persone deboli e io dovevo essere forte e impassibile. Un giorno, tornando da uno dei tanti rave, siamo andati a casa sua. “Mi faccio una doccia”. Nadir si era chiuso in bagno. Sapevo cosa stesse facendo. Lo sapevo eccome. Ero rimasta nella sua stanza ad aspettarlo, pensando a cosa stesse provando. Volevo provare anch’io. La curiosità, la voglia di fare le stesse cose che faceva lui, mi stavano facendo impazzire. “Quando esce? Quando cavolo esce da quel bagno?”. Non riuscivo a stare ferma, ero impaziente. Sento la porta aprirsi e corro verso di lui. “Anch’io, lo voglio fare anch’io”. “Tu sei pazza, tu sei completamente pazza”. Nadir non ne voleva sapere di condividere con me quel lurido pezzo della sua vita. “Scordatelo! Che cavolo hai in testa! È uno schifo, è tutto un maledetto schifo. Io ci sono caduto dentro e ora è un gran casino, ma tu…”. Lo detesto, cosa crede. Io lo farò con o senza di lui. Il giorno dopo mi presento da Corrado, un ‘amico’ che non mi avrebbe mai detto di no. Mi trovo in un garage, assieme a lui. Era la prima volta che vedevo la stagnola. Studiavo attentamente i movimenti di Corrado per non fare nessun errore quando sarebbe arrivato il mio turno. Avevo il cuore che mi batteva a mille, ma non era paura. Volevo sentirmi importante e quello era il mio modo di esserlo. Quando il fumo è entrato nel mio corpo mi ha pervasa una sensazione di pace e rilassamento, in un attimo tutte le voci che torturavano il mio cervello, anche le urla più assordanti, erano sparite. Il mondo poteva dire o fare quello che voleva, non mi interessava più nulla. Esistevo solo io. Questo è stato l’inizio della fine, da lì ho iniziato a fumare la roba tutti i giorni. Prima lo facevo per Nadir, perché volevo essere come lui. Poi l’ho fatto solo e unicamente perché non ne potevo più fare a meno. Nadir non ne poteva più di quella vita, aveva toccato il fondo e voleva farla finita con tutta quella merda. Aveva chiesto aiuto, voleva smettere. “Dobbiamo fermarci qui, facciamolo insieme. Anche questo”. Ma io non ne volevo sapere. Avevo appena iniziato. Per me era come tornare a sfiorare le nuvole e lui voleva farmi tornare con i piedi per terra. Così ho dovuto fare una scelta e, senza nemmeno pensarci, ho scelto l’eroina. Avevo bisogno di non farmi toccare più da niente e da nessuno, di continuare a volare. A casa, mia mamma cominciava a rendersi conto che qualcosa non andava. Mi parlava e io non l’ascoltavo. Parole vuote, ormai per me senza senso. Il mio fratellino, che mi aveva sempre vista come un riferimento, cominciava a staccarsi da me perché non riusciva più a riconoscermi. Le giornate, i mesi, ormai gli anni, passavano. Tutti uguali, le uniche cose che cambiavano erano la sopravvivenza all’astinenza che si faceva sentire sempre più forte e la solitudine perché avevo perso tutti. Mi bucavo da un po’ e se all’inizio quello che provavo era come l’assenza di gravità, andando avanti quella sensazione si era trasformata: mi sembrava di precipitare, sbattendo sempre più forte per terra. Ormai non avevo più niente. Un giorno ero per strada. Avevo bisogno di farmi, dovevo comprare una dose subito. Giravo testa bassa, nella speranza di trovare qualche moneta per terra. “Guarda dove metti i piedi”. Ero andata a sbattere contro una persona. Un ragazzo. Nadir. Stava bene, era bello come il sole. Gli occhi non erano più annebbiati, luccicavano. Era con una ragazza, probabilmente la sua fidanzata, che teneva per mano una bimba. Ho sentito l’enorme peso delle mie scelte sbagliate. Non sono riuscita a reggere il suo sguardo che, preoccupato e deluso, cercava di ricordare quella che ero in quello che era rimasto di me.

Sono scappata, senza dargli il tempo di dire nulla. Ho raccolto tutte le ultime energie e ho iniziato a correre più forte che potevo. “Mamma, apri la porta. Ti prego aprimi”. Battevo forte i pugni contro la porta di casa. “Mamma”. Le ho gettato le braccia al collo. L’ho abbracciata, cosa che non facevo più da anni con nessuno, e l’ho supplicata di aiutarmi perché avevo bisogno di una mano. Così ho iniziato a frequentare l’associazione che collabora con San Patrignano per gli ingressi dei ragazzi. Sono entrata in Comunità, sto bene, sto recuperando la mia vita e tutto quello che ho perso. Nadir mi guarderebbe in modo diverso. Sarebbe orgoglioso di me. Ne sono sicura.

 

Lara

Tratto da “Sanpa News – voci per crescere – n°43”