Non voglio ricordare

Il tempo scorre lento, inesorabile. Ricordo mamma che diceva sempre quanto fosse prezioso ogni secondo della nostra vita: un dono da sfruttare al massimo

Io credevo a queste parole cariche di speranza e voglio crederci ancora. Me le ripeto a bassa voce, proprio ora che ogni istante è per me come una pugnalata che lascia un segno profondo nel mio cuore. Il tempo è dolore, i minuti sono spazi vuoti, dove la solitudine prende posto accanto a me. La mia stanza era fredda e disordinata, ma nonostante tutto era il mio rifugio. Trascorrevo le giornate in quel luogo dove mi sentivo sicuro e che pian piano mi si stringeva intorno, diventando sempre più piccolo e stretto, come una cella. La mia cella, in cui io sceglievo di essere prigioniero. È una mattina come tutte le altre. Il fumo della sigaretta ristagna attorno a me e la cenere cade piano piano, come neve, posandosi sulle lenzuola. Il letto è così comodo, vorrei restare qui, ma sono ormai due giorni che non mi muovo e la mia coscienza inizia a farsi sentire. Devo reagire. Mi alzo, mettendo tutto me stesso in ogni piccolo gesto e provo a convincermi che questo giorno sarà diverso. Voglio credere di potercela fare. Scelgo di provarci. Non lo faccio da diversi giorni, ma oggi ho deciso di lavarmi, di vestirmi, di tornare a sentirmi normale. Almeno per un giorno. Mi siedo davanti alla mia scrivania. Il sole è alto nel cielo e riflette sulla mia pelle i suoi caldi raggi. Mi godo questo tepore e per un istante dimentico l’ansia che provo nella speranza che vada tutto bene. Gli uccelli cinguettano sugli alberi, fuori dalla mia finestra. Alcuni riposano sui rami, altri volano nel cielo di fine estate. Non li vedo mai soli. Volano in stormo, in coppia. Avrei molto da imparare da loro. Invece di stare così, ormai da un mese, recluso nella mia prigione. Nessuno si è chiesto dove fossi. Non mi interessa. Mi convinco che è così: non mi importa. Sarò io a chiedere di loro. Prendo il telefono. Digito compulsivamente messaggi a tutti quelli che conosco. Amici. O meglio, quelli che reputo tali. Forse qualcuno risponderà. Scrivo anche a lei, Vanessa. Quanto tempo è passato. Quante pasticche ho preso, sperando di cacciarla dalla mia mente. In questo mese non ho fatto altro che trovare conforto in quella ‘felicità sintetica’ che mi arrivava proprio dal farmacista di famiglia. Sedato, quindi calmo. E tutti pensavano che io stessi meglio. Mi ero messo a nudo. Ogni speranza di una ripresa era riposta in quei semplici, freddi messaggi: ‘Bella, che fai? Passa da me’. Era la mia richiesta di aiuto. Io non sapevo chiederlo. Volevo volare insieme agli altri. In gruppo, in coppia. Ma non sapevo farlo. Mi risponde. Vanessa, dammi una buona notizia. Ma il mondo, il mio mondo è un posto cupo, e ho paura di affrontarlo. Tremo. Prendo il telefono. C’è un solo messaggio. Il suo. Leggo. Lo, sento. Sento il distacco nelle piccole lettere in pixel sul mio cellulare. Le avevo già parlato di noi. Le pastiglie mi avevano aiutato a non pensare a lei, a non pensare a noi. Ma non avevo mai dovuto affrontare una risposta così chiara e diretta. Lei per me non c’era più. Non avevo lo stormo, non avevo la coppia. La mia vita mi stava schiacciando. Un colpo, un proiettile di realtà mi stava distruggendo la mia piccola, ultima speranza. Sei solo, ricordatelo! No, non voglio ricordare. Perché soffrire per lei? Perché devo stare così male? Io sono io, devo pensare a me. Non ce la faccio. La mia mano ha già afferrato la confezione di xanax. Una, due… perdo il conto quando in bocca me ne sono infilate otto. Il letto è così soffice, il mondo si schiarisce e vedo la luce, la speranza non serve, lo stormo sono io. Sono solo, di nuovo, avvolto nelle coperte, nella mia felicità. Vanessa, gli amici. La realtà sbatte forte contro la mia testa. Voglio piangere, ormai non c’è nulla che possa distrarmi. Mi alzo. Accendo la musica e una sigaretta. Barcollo e mi appoggio alla finestra, fredda di condensa. Pastiglie. Ne ingoio ancora. Sorrido e mi sento soddisfatto. Le auto passano, le osservo dal vetro. La gente ha una vita, qualcuno da cui tornare. Vanno e vengono verso qualcosa, verso uno scopo. Ma io, in fondo, che cosa ho? Il mio corpo che cade a  terra e si trascina sul letto, il cuore quasi fermo e il respiro lievissimo, la voglia di lasciarmi andare, di dormire e la speranza di svegliarmi o forse… di non farlo più.

Marco

Tratto da “Sanpa News – voci per crescere – n°43”