Per convincermi

“Ciao Ale, come stai? Non preoccuparti, starai bene. San Patrignano è un posto dove se vuoi, ce la puoi fare alla grande. Starai in mezzo a tanti ragazzi. Là troverai davvero tanto. Soprattutto persone che ti capiscono e che, anche se a te sembra impossibile, ce la stanno facendo”

A volte queste sembrano parole vuote. Frasi di circostanza, dette solo perché stai per entrare in Comunità. Perché hai vent’anni, e quelli che ti stanno intorno – genitori, operatori dell’associazione a cui ti sei rivolto, gente della Comunità – non vogliono che cambi idea, che all’ultimo scappi e vai a farti. “Me lo dicono solo per convincermi”. Un tossico pensa quello, in quel momento.

Eppure a me piacevano quelle frasi. Perché vi assicuro che mollare tutto e andarmene a Rimini per quattro anni… beh è stata la forza della disperazione a farmi scegliere e quelle parole mi davano speranza. Sono entrato per la paura di morire. Oggi sono qui in Comunità, sono passati anni da quei momenti, ma io li ricordo come se fossero ieri. Mi ricordo il bisogno di entrare, per vedere con i miei occhi cosa fosse San Patrignano. Per iniziare questo percorso che, a un certo punto, sembrava non avere fine.

In associazione  con me c’erano altre persone. Genitori dei ragazzi che erano già a San Patrignano, ragazzi che erano a casa “in prova”, “in verifica”, e che quindi avevano quasi finito. Loro ci raccontavano le loro esperienze. Ascoltarli ci dava una grande forza. C’erano altri tre ragazzi che aspettavano di iniziare il percorso e che erano molto più grandi di me. Uno aveva trent’anni, uno trentasei e l’ultimo aveva quarant’anni.

Tra di noi non c’era un gran rapporto, sapevamo che era meglio non parlare, perché comunque non potevamo darci una mano a vicenda. L’unica cosa che facevamo, quando eravamo tutti insieme in quelle giornate, era raccontarci quello che avevamo passato, anche se molto superficialmente. Ricordo che loro mi guardavano con molta invidia, soprattutto il ragazzo di quarant’anni. Lui mi diceva sempre “beato te”, “mi raccomando, non tornare indietro, che io l’ho già fatto tante volte, e sono di nuovo qui, al punto di partenza. Anche se ormai non mi è rimasto più nulla”.

Potrebbero sembrare solo frasi fatte, ma vi assicuro che non era così. Sentivo che era sincero quando mi parlava. In qualche modo sentivo che eravamo uguali, che lui era ancora un bambino che non aveva il coraggio di vivere. Proprio come me. Solo che lui aveva più barba, aveva le rughe. E ormai non faceva più pena a nessuno. Non poteva più permettersi di tornare indietro. Oggi che sono tornato a scuola, che ho messo a posto il rapporto coi miei genitori e che tra poco tornerò a casa, non posso fare a meno di ricordarmi di lui. Del giorno in cui se ne andò da quell’associazione, per tornare a casa sua. Lui non è mai entrato.

Ricordo che mancavano pochi giorni al colloquio conoscitivo. Saremmo andati con i nostri genitori e con le persone dell’associazione proprio a San Patrignano, e poco dopo saremmo entrati. Quella mattina quel ragazzo è sceso nel salone con le lacrime agli occhi. Gli chiedevamo tutti cosa fosse successo. Non riusciva a raccontare, non voleva parlare, diceva solo che non sarebbe più entrato. Noi non sapevamo cosa dire, eravamo come dei soprammobili. È andato a farsi le valige. Quando stava uscendo dalla porta, però, per qualche motivo, si è sentito in dovere di spiegarci. E ha cominciato a guardarmi negli occhi.

Qualche mese prima era andato a casa del suo spacciatore. Era una di quelle sere in cui stava male, ma non aveva soldi e aveva bisogno di farsi. Aveva provato a farsi dare la droga in qualche modo. Era andato lo stesso, sperava di convincerlo a farsi fare credito. Quella sera il suo spacciatore gli  aveva dato qualche busta in mano, chiedendogli in prestito la macchina, per andare a fare il carico in una città lì vicino. Gli aveva detto che,  al suo ritorno,  gliene avrebbe data il doppio. Gratis.

Così lui aveva accettato. Si era fatto accompagnare a casa, gli aveva lasciato la macchina ed era andato in camera sua a farsi. Quella era la cosa più importante. Una busta dopo l’altra, senza ritegno, quel ragazzo si era fatto fino ad addormentarsi, alle luci dell’alba. Si era svegliato due giorni dopo. Aveva provato a richiamare lo spacciatore, ma lui non rispondeva. Era sparito. La sua macchina era parcheggiata nel viale con le chiavi dentro. Salì senza accorgersi dell’ammaccatura sul paraurti. Era passato quasi un mese quando gli arrivò la lettera del tribunale. Doveva  presentarsi all’udienza per aver investito due ragazze che tornavano dalla discoteca.

Niente denunce, nessun modo per provare che non stesse guidando lui, quella sera. Non sapeva nemmeno come si chiamasse davvero, il suo spacciatore. Lui ci raccontava, spiegando che non poteva fare nulla. Non c’era nessun modo per non scontare quegli otto anni e due mesi. Lui lo sapeva, sperava di poter cambiare vita in tempo. Ma si era fermato troppo tardi. Parlava piangendo, facendoci vedere la lettera che gli era arrivata il giorno prima, l’esito di tutta quella vicenda. Risaltava una sola parola, in alto, al centro del foglio, in grassetto, che pesava come un macigno. “Condanna”. Non pensava che gli credessimo. Sapeva che nessuno avrebbe creduto a una storia del genere, soprattutto se raccontata da un tossico. In realtà nemmeno io sapevo se credergli o meno. In quel momento pensavo solo al fatto che avevo vent’anni, ma avevo vissuto tantissime situazioni simili. Ed era solo fortuna se a me non era mai successa una cosa del genere.

Ho pensato tante volte alla storia di quel ragazzo. Ho pensato al suo modo di parlarmi, alla sua vita. Anche se forse pensarci non ha molto senso. Quando mi chiedono se ho mai pensato di mollare San Patrignano, il mio primo pensiero va a quel momento, mentre lo guardavo allontanarsi in silenzio, da solo con le sue valige, per quel vialone polveroso. È un ricordo che porto con tanta amarezza nel mio cuore. Non ho mai raccontato molto di me, ma ho deciso di scrivere questa cosa che ho vissuto. Perché anche se ci sono passato, non ho mai compreso quanto stessi rischiando mentre facevo quella vita. Non te ne rendi mai conto, se no non lo faresti. Le parole che sto scrivendo sono le stesse che mi ha detto quel ragazzo, quasi tre anni fa. Sono le parole che mi hanno convinto a restare. Storie tristi, che non hanno una morale, un inizio o una fine. Storie che non voglio più vivere.

Alessandro