C’è un posto anche per te

Le cose erano completamente diverse da quando vivevo in Spagna, non mi sentivo più la stessa, non ero abituata a quel tavolo vuoto in mensa, a quel voler scomparire ogni volta che entravo nella nuova scuola e nemmeno a quella solitudine che trovavo a casa

In Spagna ho fatto una vita apparentemente perfetta. Vivevo in un bellissimo attico in centro con i miei genitori. Mia mamma non lavorava e quindi non mi lasciava mai sola. Andavo in una scuola privata ed ero piena di amici, quando era il momento di fare casino e di divertirci ero sempre in prima linea, poi a casa regali, soldi e viaggi non mancavano mai. Dopo anni passati nella più totale serenità, mentre frequentavo la seconda media, c’è stato un momento dove ho capito che qualcosa iniziava a non funzionare. Era Natale, come regalo mi era arrivato solo un libro e per la vita che facevo io era un po’ strano ricevere solo quello. Poi, i soldi che i miei nonni mi avevano mandato dall’Italia, mio padre me li aveva chiesti in prestito promettendomi in cambio la play station che non arrivò mai. L’attico nel quale abitavamo aveva perso tutta la sua bellezza, ogni giorno che passava l’aria che si respirava lì dentro era sempre più tesa. Un pomeriggio, tornata da scuola, ho trovato la mia famiglia seduta sul divano, uno dei pochi mobili che rimaneva della casa. Mia madre è stata l’unica a parlare: “Amore, dobbiamo trasferirci in Italia, dai nonni, perché non abbiamo più soldi”. Quelle parole mi avevano devastata, ma poche ore dopo eravamo in viaggio, senza nemmeno aver prima salutato nessuno. Dentro la paura mi soffocava, non conoscevo nemmeno la lingua, poi si diceva che gli italiani erano tutti magri, mentre io ero abbastanza cicciottella. E infatti il primo giorno nella nuova scuola è stato un incubo, non appena ho messo il piede in classe si sono zittiti tutti, poi alcuni sono scoppiati a ridere, altri sono rimasti a fissarmi come se fossi un alieno e altri ancora si sono messi a dire filastrocche che, da quel che ero riuscita a capire, si riferivano al mio fisico. Le settimane passavano, nessuno osava avvicinarsi se non per lanciarmi addosso bucce di banana o palline di carta. Ma il momento che odiavo di più era quello del pranzo. In quella scuola c’era pure la mensa e io mi ritrovavo sempre in un tavolo completamente sola e anche lì le risate e le prese in giro non mancavano mai, le cose si erano completamente ribaltate rispetto a quando ero in Spagna. Quando tornavo a casa i miei genitori non c’erano mai perché erano costretti a lavorare fino a tardi, mi rimanevano i nonni, con i quali, però, non avevo rapporto. Il peso di quella solitudine non era per niente indifferente, ma un giorno, durante la pausa pranzo, mentre ero seduta nel solito tavolo vuoto, un ragazzo si è seduto di fianco a me. All’inizio pensavo che fosse uno scherzo, ma poi si è presentato dicendo che si chiamava Juan e che veniva dal Messico, quindi, aveva qualche problema con l’italiano. Non potevo crederci, almeno parlavamo la stessa lingua, gli ho detto che venivo dalla Spagna e che pure io ero nuova. Da quel giorno il momento del pranzo era diventato il nostro appuntamento fisso, in cui ci davamo anche una mano per imparare bene l’italiano, finalmente potevo entrare in quella mensa a testa alta, anche io avevo un amico e non mi sentivo poi così diversa dagli altri. Un giorno, durante il nostro appuntamento fisso, Leonardo, il figo della classe, quello che già fumava le sigarette e veniva a scuola in motorino, mi aveva rovesciato un bicchiere d’acqua nei pantaloni urlando per tutta la mensa che me la ero fatta addosso. Juan si è alzato di scatto per aiutarmi, ma poi guardando Leonardo che continuava a ridere, non è riuscito a fare a meno di spingerlo. Un professore vedendo la scena ci ha mandati tutti e tre dal preside che ci ha segnato un richiamo. “Ma perché lo fai Leonardo?”. “E tu, Juan, perché stai con lei?”. Io mi sentivo a disagio, ancora una volta inadeguata e sbagliata. “È mia amica, è stata la prima ad avermi accolto, sto bene con lei, riesco a essere me stesso. Ma ripeto, perché ti comporti così?”. A Leonardo era cambiata l’espressione sulla faccia. “Perché devo far ridere gli altri”. “Mi dispiace tu non abbia ancora trovato un vero amico”. Juan lo aveva guardato fisso negli occhi mentre pronunciava quelle parole. Poi mi ha presa per mano e insieme siamo tornati in mensa. Stavamo gustando il nostro pranzo quando una voce ci ha sorpresi alle spalle. “C’è un posto anche per me?”. Era Leonardo. Quel posto c’era, eccome se c’era. Ed è così che su quel tavolo adesso siamo sempre in tre, è il nostro appuntamento fisso, vivo per quel momento, sono i miei migliori amici e non li cambierei con niente al mondo.