Flashback

“Forse è finita”. Questa è stata la prima cosa che ho pensato. I miei sensi sono completamente ovattati, l’aria è immobile, sento solo che le mie braccia, le gambe e la testa pesano una tonnellata. Guardo quella luce, sopra di me

Non riesco a ricordare quando mi sono svegliata. In effetti, forse non ricordi mai il momento esatto in cui apri gli occhi. Non ci avevo mai pensato. Sorrido. Mi sento bene, sono leggera e pesante allo stesso tempo. Voglio restare qui. Respiro profondamente, mentre ricordo le cose più belle che ho nascosto, nei meandri della mia mente. Quando ero piccola adoravo la poesia, le canzoni rap e le persone dolci. Scrivevo tante cose che a me sembravano bellissime, dedicate a chi mi voleva bene, o anche semplicemente alle persone che portavano un po’ di dolcezza dentro di loro, magari un po’ nascosta dietro qualche atteggiamento, per non scoprirsi troppo. Un po’ come facevo io. Mi piaceva stare in mezzo alla natura. Adoravo i parchi, quelli con tanti alberi, che ti danno l’impressione di essere vicino al bosco. Ci passavo spesso in bicicletta, con le cuffie nelle orecchie. E poi il mare. Adoravo sedermi sulla spiaggia e guardare il mare in silenzio, da sola. Mi piaceva stare da sola. Un brivido, lungo la schiena. Sono sdraiata su una superfice fredda. Mi ricordo la solitudine. La ricordo molto bene. Un flash. Io in quinta elementare che esco da scuola, insieme a tutti i compagni di classe. Passavano tutti, correvano verso la macchina dei loro genitori, qualcuno andava a casa a piedi, ma correvano tutti, urlando come pazzi. Molti sbattevano contro il mio zaino, per la fretta. Io camminavo come un fantasma, non esistevo per loro, non parlavo con nessuno. Camminavo con calma, la mia bicicletta non sarebbe scappata da nessuna parte. Anzi, forse era meglio non farmi vedere. Ho staccato il catenaccio, sono salita in sella e ho pedalato verso il parco. Mi sono fermata per la strada, dietro agli alberi, dove non c’è nessuno. Mi sono seduta. Ho aperto lo zaino e ho tirato fuori la birra. Quella birra che restava sempre a casa, quando non c’era nessuno. Iniziavo con dei sorsi molto lunghi, per sentirmi velocemente leggera. Poi iniziava il mio pomeriggio. Non ce l’ho mai fatta ad aprirmi coi miei genitori, né a parlare con gli altri bambini. Mi sentivo diversa, indifesa. Ma tanto io non esistevo per nessuno. Ero quella sbagliata. Mi piaceva stare da sola, è vero. Ma non avevo un’alternativa. Tutte le persone intorno a me avevano i loro casini, era tutto sbagliato. Avevo tredici anni, e quello era il mio destino. Il mondo mi schiacciava se restavo da sola e non bevevo. Sono vestita solo con una vestaglia di carta. Con fatica riesco ad alzarmi sulle braccia. Sono in un ambulatorio, su un lettino di ferro. Il filo della flebo di soluzione salina pende dalla sacca sul bastone di metallo, arrivando fino all’ago, infilato dentro il mio braccio sinistro, attaccato con un pezzo di garza adesiva. Non c’è nessuno. Come al solito. Realizzo che sono sola, non ci sono nemmeno i medici. Ricordo che ero arrabbiata. Con tutto il mondo. E con me stessa, perché ero sbagliata. Ricordo quanto alcol trangugiavo, per dimenticarmi chi ero. Ricordo che mi hanno portata via gli assistenti sociali, perché a casa non volevo tornarci. Ho passato tutta l’adolescenza passando da una casa-famiglia a un’altra, dove comunque mi sentivo meglio che a casa. Ma continuavo a bere. E girando con la gente giusta, ho conosciuto finalmente l’unica cosa che mi faceva stare bene. L’eroina. Volevo farmi male. Quello era l’unico pensiero fisso nelle mie giornate. Non sentire più niente, autodistruggermi. Sto già togliendo la flebo, quando nell’ambulatorio entra lui. Il prof. Quel professore maledetto che continuava ad inseguirmi, fin da quando andavo al professionale. Mi guarda, con quello sguardo che odiavo tanto. Se ne sta lì con le lacrime agli occhi, con il fiatone di chi ha fatto gli scalini tre alla volta. Sperando che fossi ancora viva. Ricordo quei momenti dolci, in cui andavo ancora a scuola. Quando finiva la lezione io rimanevo lì, un po’ per attirare l’attenzione, un po’ per non incontrare i miei compagni, fuori. Quando arrivavo alla frutta lui lo capiva, trovava sempre il modo di farmi restare lì, e io scoppiavo a piangere. “Quante volte hai provato a darmi una mano, prof., io non merito il tuo aiuto, è inutile. Tanto sono sbagliata”. Questo continuavo a pensare, ogni volta. Ricordo quell’anno in cui mi hai portato a WeFree Days, quella festa di prevenzione che facevano a San Patrignano. Ricordo quei due ragazzi, belli e brillanti, con la maglia arancione. Sono saliti sul palco e, di fronte a duemila persone, hanno cominciato a parlare della loro vita. Più andavano avanti più io piangevo, stringendo i pugni sempre più forte. Più loro parlavano di quello che avevano pensato, mentre facevano i loro sbagli, più dentro di me sentivo di non essere l’unica ad aver pensato quelle cose. Non ero sola. E non ero diversa. Le ho sentite col cuore, non con la testa, quelle parole. Come se per la prima volta nella mia vita avessi capito di non essere poi così sbagliata. Ma io volevo farmi male. Perché tutto quel bene io non me lo meritavo. Non volevo crederci. Nemmeno quando quei ragazzi sono scesi dal palco e, tra tante persone, sono venuti a parlare con me. Io volevo autodistruggermi. Volevo scomparire. Ci guardiamo, io e il prof, dentro quell’ambulatorio, in silenzio. Ora ricordo. Sono sopravvissuta per miracolo a un’overdose. Non voglio che mi guardi in quel modo, voglio che mi odi. E invece so che non si sarebbe arreso, nemmeno questa volta. Non c’è niente da fare, sono felice di vederlo. «Sei una deficiente». Non so cosa rispondergli. Voglio urlargli addosso e tirar fuori tutta la mia rabbia. Ma voglio anche abbracciarlo. Voglio andarmene da tutto questo. Ci guardiamo, in silenzio. Non mi merito di certo una persona così. Penso a tutto quello che ho fatto, a che diavolo di casino c’è dentro di me. Il mondo mi ha deluso, ma io non sono stata da meno. Ho fallito in tutto. Non so quanto tempo è passato, da quando mi sono svegliata. Non so perché il prof sia qui, adesso. Non so niente. Ho rivisto tutta la mia vita, in questi dieci minuti. So cosa sta per dirmi. Forse c’è davvero qualcosa, che ancora mi ha tenuta in vita, per arrivare di fronte a questa frase, che forse darà un senso anche alla mia vita. «È arrivato il momento, il tuo posto è lì. Devi entrare a San Patrignano».

 

Sara