Mio padre

Non mi piaccio; mi vedo troppo magro. Penso che vorrei smettere di fare questa vita, di dire bugie, di dover sempre aver paura di qualcosa, di dirti che ti voglio bene quando me lo chiedi.

«Bene, bene».

«Tutto a posto a scuola?»

(Sì, a scuola poi una meraviglia: non ho venduto abbastanza erba e sono sotto coi soldi. Vorrei impegnarmi, ma ho paura di sembrare un secchione. Volevo parlare con lei, ma non l’ho trovata. Pensavo di aver preso un bel

voto in matematica, invece ho preso un tre, un altro tre e pensare che avevo pure studiato stavolta. Vorrei dirtelo, ma sono convinto che ti deluderei. Spaccherei tutto, che vita di merda!)

«Sì, sì».

Sì sì, sempre questo dicevo. E sì che di robe ne avevo da cacciar fuori, ma tutto era troppo o troppo poco.

Però in fondo lui lo sapeva che dietro quel “sì sì” c’era molto di più.

«Tu sei un iceberg — mi ha detto una volta — quel pezzettino di te che fai

vedere non è neanche la metà della metà di quello che sei in realtà».

E aveva ragione.

Ma era troppo brutta la realtà per accettarla, figurati per raccontarla a lui, al mio papà. E pensare che a lui, in realtà, bastava pochissimo.

Gli sarebbe bastato che, in quelle due sere a settimana in cui ci vedevamo, gli avessi raccontato qualcosina di me, della mia vita, di quelle ‘storiacce’ che mi facevano stare male. Gli sarebbe bastato.

Meglio una brutta verità che una bella bugia. Un “sì sì” finto come il sorriso che avevo stampato in accia quando arrivavo a casa.

La verità è che tutto mi sembrava assurdo, complicato, inutile e sarebbe restato tutto così se non mi decidevo a fare i conti con i miei ingrippi mentali. Gelo e finte buone notizie, disseminate di discussioni tra di noi, di insistenti e disperate domande sue e strazianti scene mute mie, caratterizzavano i nostri dialoghi.

Finchè una mattina sono uscito di casa con la sua bici e dieci euro in tasca che mi aveva dato lui. Sarebbero stati meglio venti almeno mi pigliavo una busta da solo e buona notte.

Va beh facciamo a mezzo va là… che schifo!

«Documenti prego».

(Sì, pure questa mi mancava. La polizia)

«Non ce li ho».

«Allora chiamiamo i tuoi, sei mino-

renne vero?»

(a posto è finita)

«Sì».

(sì, sono minorenne.)

Ho chiamato la mamma, ma la mamma non poteva venire e così ho chiamato lui.

Volevo morire, scappare, tornare dalla ragazza che non avevo, dalla felicità che non potevo avere, dalla vita che non mi apparteneva, che non ero capace di vivere.

«Papà…ascolta».

Mi tremava la voce, le gambe di più.

«Sono qui coi carabinieri, ho fatto una cazzata…mi dispiace!»

Ha sospirato, ricordo, e ricordo che in quel sospiro c’era tutto; tutto quello che un padre non vorrebbe avere nel cuore.

«Abbiamo ricevuto una segnalazione, suo figlio è stato visto scavalcare il recinto di questa struttura.

L’abbiamo trovato mentre fumava sostanze stupefacenti, è considerato un…».

«Scusi che sostanze?»

«Eroina».

(ciao! Non ci voglio credere!).

È venuto fuori un casino, però almeno tra me e lui non c’era più nessun segreto. Mia madre è partita un paio di mesi dopo, è andata in Argentina e io sono rimasto solo con lui. Gliene ho combinate di tutti i colori, ma alla fine ne siamo usciti insieme, o almeno ci stiamo provando.

Mi viene a trovare ogni quattro mesi e ogni volta lo conosco sempre meglio e capisco sempre meglio che ci sarebbe bastato così poco.

Mi ha raccontato che una sera eravamo a casa a guardare un film e io ho appoggiato la mia testa su di lui e ora so che lui in quel momento era felice. Pensa te! Basta così poco per essere felici. A lui sarebbe bastato.

Questo è mio padre.

Leandro

 

Tratto da “SanpaNews”. Scopri come riceverlo