Ho scelto di vivere per me e per mia figlia

Seduta sul divano osservo le luci dell’albero di Natale che illuminano ad intermittenza la stanza. Fuori nevica. In questo momento sono grata di abitare lontano dal centro della città. Nella strada privata del mio quartiere residenziale ogni tanto passa qualche macchina. Solo qualche macchina. Natale. Capodanno. Le feste. Già la feste.

Caccio via questo pensiero malinconico mentre con la scheda del telefono traccio una striscia bianca di cocaina che tiro velocemente e rabbiosamente, come faccio ormai da giorni, da quando ho risposto a quella telefonata, a quella telefonata che aspettavo da giorni: “Mamma….ciao. Non vengo per Natale mamma…resto da papà. E’ meglio. Così tu puoi curarti mamma…capito? Capito mamma? Ti voglio bene. Ciao.”

Mia figlia.

La botta della coca sale. Stringo le mascelle, chiudo i pugni. Mi alzo e vado verso la finestra. Il patio è ricoperto di neve. Sul prato, imbiancati e sparsi, i resti dei regali che avevo preparato per lei, per la mia bambina e che ho fatto a pezzi accecata dall’ira e dal dolore che quelle parole mi avevano provocato dentro. Piango anche adesso. Piango perché quel dolore non passa nonostante la coca, nonostante l’alcol, nonostante i farmaci che ingerisco ormai come caramelle, ma che di dolce non hanno niente. Niente. Vorrei scappare o morire o cadere in pezzi. Vorrei essere cieca, sorda e senza cuore. Vorrei infilarmi in un buco nero e non uscirne più. Vorrei cancellare la mia esistenza, insieme a tutti i miei ricordi. A volte mi chiedo perché ho ridotto la mia vita a così poco? Chi sono io? Dove sono le persone che amo? La mia casa è solo una scatola dove mi sono chiusa e dove, egoisticamente, ci avrei voluto portare anche mia figlia, lei, come una piccola lucciola nel buio, come il solo bagliore che ha illuminato la mia vita. Ma neanche lei ha voluto restare con me.

Io l’avevo voluta mia figlia ed avrei voluto donarle tutto ciò che era mancato a me. Una madre affettuosa, una casa accogliente, un’esistenza serena. Ma non ero stata capace di donarle nulla di tutto questo. Ossessionata dalla paura di vivere come aveva sempre vissuto mia madre, lavorando duramente senza potersi permettere mai nulla, ho cominciato la mia vita sopra le righe. Uomini, soldi, droga, sesso, alternando trasgressione a disperazione. Ho passato anni narcotizzata ed ubriaca tra feste in case di sconosciuti e chiusa in una stanza solo col mio dolore, anch’esso sconosciuto a me stessa.

Sapevo che le persone che frequentavo erano tutte infelici ma a me, in quei momenti, sembravano tutti molto contenti….ballavano, ridevano, bevevano, flirtavano. Evidentemente la mia e la loro infelicità era sufficientemente agile da svaporare nei bicchieri di champagne e scivolare lontano, oltre la pista da ballo, oltre il parcheggio con le loro macchine di lusso. No, allora non mi sentivo affatto circondata da anime in pena…non pensavo a mia figlia che mi cercava ogni notte in un letto vuoto e freddo, ignoravo tutto ciò a cui stavo andando incontro.

Quando ho deciso di entrare in comunità sapevo di rischiare anche di perdere mia figlia, ma finalmente avevo capito quanto necessario fosse non rischiare di perdere la mia vita. Per riavere anche la mia bambina.

Ho ricominciato tutto daccapo. Per tutte e due.

Tratto da “SanpaNews”. Scopri come abbonarti.