Questa volta andrà bene

Alle 6:45 del mattino il freddo ti si attacca alla felpa. Forse a quest’ora serviva il giubbotto, alla fermata dell’autobus, anche se è settembre. Arriva il 96. È già pieno. Anche loro devono andare a scuola, sono tutti del paese prima.

“Da domani mi sa che mi alzo prima, qua non c’è più posto. In realtà qualche posto c’è ancora, ma dovrei sedermi vicino a qualcuno. Non conosco nessuno, preferisco stare in piedi. L’importante è mettermi in un angolo, così poi dopo non sarò in mezzo alla ressa, starò meglio”.

L’autobus scorre nella città, fermata dopo fermata, raccogliendo nel suo percorso tutti i ragazzi, ansiosi per il primo giorno di scuola. Quelli che vengono dalle medie sono timidi, non sanno cosa li aspetta alle superiori; quelli di seconda, di terza, loro ridono, urlano, come a far vedere che non si vergognano più, che non sono più com’erano al primo anno. Sono veterani ormai, ce l’hanno fatta.

“Cavolo, non conosco davvero nessuno. Ma quest’anno andrà bene, cambia tutto. Cambiano i compagni, la scuola, la classe. Non sono più un ragazzino, non mi metteranno sotto. Quest’anno sarà diverso”.

Arrivo, capolinea. La scuola è grande, un muretto di mattoni rossi delimita il giardino dove i ragazzi fumano e salutano le ragazze, seduti sui motorini. Qualcuno arriva in macchina, ormai è grande. Le ragazze invece hanno i loro gruppetti, impossibile avvicinarcisi, nemmeno i veterani possono. Guardando bene quelli che stanno da soli ci si accorge chi sono quelli che stanno da soli perché sono sfigati, questo ormai è il loro destino, e quelli che al contrario stanno soli perché è il primo giorno di scuola, ma poi troveranno il loro gruppo. In alcuni punti si riconoscono quei ragazzi che hanno accettato di stare insieme perché erano da soli, hanno fatto squadra. Stanno bene loro.

Passano veloci le prime ore, talmente in fretta che probabilmente non ci sono neanche state. È il giardino quello che conta, è lì che si impara a stare al mondo, altro che la matematica, l’italiano e l’economia aziendale. Esce dalla classe senza la sua merenda, cammina nell’atrio guardandosi attorno.

“Devo fare amicizia con qualcuno, questo è il momento buono. È adesso che si formano i rapporti, è adesso che si determina come passerò i prossimi cinque anni. Devo lasciar stare quelli che hanno già gli amici, le ragazze, e focalizzarmi su quelli spaesati, che come me sono al primo giorno di scuola. Quest’anno non sarò lo zimbello di nessuno, fosse l’ultima cosa che faccio”.

In giardino si fuma. C’è qualcuno del primo anno, probabilmente cercano amici come lui, tranne quelli che semplicemente si fanno i fatti loro. Non resta che approcciare.

«Ehi, ciao! Tu sei mica della prima C?»

Il ragazzo si gira, mentre fuma una sigaretta; forse non vuole parlare , visto che lo guarda, si rigira e se ne va.

“Come? Perché? Che cos’ho fatto di sbagliato? Dai dai, non è successo niente, nessuno ha visto niente, sono ancora in ballo! Adesso ecco, provo con questi due”.

Cerca di avvicinarsi a un gruppetto, nella speranza di conoscere qualcuno. Mentre cammina, un ragazzino basso gli vola letteralmente addosso, spintonato da un ragazzo di terza, un bullo. Fa appena in tempo a schivarlo. Il bullo vuole la merenda del ragazzino, ma in realtà questa è una scusa, sta solo affermando la sua superiorità di fronte a tutti, sta facendo vedere chi è che comanda ai nuovi arrivati. Mentre il ragazzino cerca di scappare, vengono in mente i brutti ricordi anche a lui, ora che è lì a guardare, da lontano. Da fuori.

“Povero ragazzino, so cosa sta provando, e soprattutto so cosa proverà quest’anno. Essere chiuso in bagno, farsi rubare la merenda, prendere gli schiaffi di fronte a tutti. Ma non è questo il punto. Il brutto è come ti trattano gli altri, quelli che vedono quello che succede ma non dicono niente, e che anzi ridono alle tue spalle e ti guardano dall’alto in basso, senza fare niente. Sono i loro pettegolezzi che ti fanno venire voglia di ammazzarli tutti, e di ammazzarti, per non vederli più tutte le mattine. No, non ci sto, non mi interessa, IO NON SONO E NON SARÒ MAI COME LORO”.

Così, d’impulso, decide di fargliela vedere. Senza pensare si mette in mezzo.

«Ehi tu»

Il ragazzo di terza si gira. Lo guarda con aria di sfida, per vedere se ha il coraggio di ripetere con lo stesso tono quello che ha appena detto.

«Si si dico a te. Ti diverti a fare il grosso con lui? Ti senti grande?»

«Cosa stai cercando di fare? Sai che adesso prendi un mare di schiaffi, qui di fronte a tutti?»

«Si davvero? Sai cosa ti dico? Vaffanculo»

Rimangono tutti esterrefatti. Il ragazzino basso ormai è in classe, la situazione è tra loro due. Tutto il giardino è in silenzio, stanno a guardare quello che sta per succedere. Il ragazzo di terza gli tira uno schiaffo così forte che sembra un pugno, lui non se ne accorge neanche, non riesce nemmeno a pararsi, vola a terra a peso morto. Gli è subito sopra, è paonazzo in volto per la rabbia, gli prende la testa con un braccio e con l’altro stringe con tutta la forza che ha. Nessuno fa niente. Dopo qualche secondo escono gli insegnanti e il bidello, li staccano e portano via il ragazzo di terza. La prof di italiano resta lì con lui, chiede di chiamare un’ambulanza, anche se non è ridotto poi così male.

“Dio, ne ho prese un po’ oggi. Speriamo che lo mandino via da scuola così non lo vedo più. Ma non mi interessa. Potranno chiamarmi sfigato finché vorranno. Oggi gli ho dato la lezione, e non al bulletto di turno, ma a tutti gli altri. Ora sanno chi sono”.

Si rialza, dolorante ma contento. Nessuna capisce perché sorrida. Risponde a tutti che sta bene. La prof gli chiede di venire con lei, lui le ripete di non preoccuparsi, che arriverà tra poco in classe. Lo lascia lì a finire l’intervallo. Gli altri lo guardano, lui fa finta di non guardarsi attorno, ma in quel momento sta bene, in qualche modo adesso è a suo agio. Arriva da lui il ragazzo di prima, quello che se ne era andato quando gli aveva rivolto la parola. Lo guarda un attimo negli occhi, lui non abbassa lo sguardo, non si sente per niente in difetto. Alla fine il ragazzo gli sorride, poi gli porge una sigaretta.

Federico