Ora non vedo il mondo, lo guardo

Odore di polvere, cibo, sento una canzone rap, qualche chiacchiera e risata in sottofondo. Apro gli occhi e guardo fuori dal finestrino, case e campi passano rapidi sotto il mio sguardo perso, quasi ipnotizzato. Sposto la messa a fuoco sulle gocce che scorrono sul vetro appannato. Siamo diretti a San Patrignano, la più grande comunità per tossicodipendenti in Italia e nel mondo. A dire la verità l’idea mi spaventa un po’, non so cosa aspettarmi da un’esperienza del genere, ho sentito molti parlarne, tutti positivamente, ma ciò non basta per rimuovere il senso d’inquietudine che provo. Molte domande vagano nella mia mente, senza trovare risposta. Come dovrò comportarmi? Cosa ci aspetta davvero una volta arrivati in comunità? Avrò il coraggio di incrociare lo sguardo di queste persone? Sono domande naturali, per quanto si possa essere sicuri di se stessi: l’andare incontro ad una situazione nuova e sconosciuta può far crollare ogni certezza.

Le risposte che attendevo arrivano una decina di minuti dopo, quando, ancora assorta nei miei pensieri, sento il motore del pulmino spegnersi. Salgono a bordo due ragazzi che scambiano qualche parola con i professori, non riesco a vederli, sono in ultima fila e la decina di colli allungati che si mettono tra me e i nuovi arrivati non aiutano di certo. Sento solo le loro voci, sono tranquille, rilassate, allegre. Si presentano e solo in quel momento realizzo che si tratta di due ragazzi della comunità. Avrei pensato a dei responsabili, nel loro atteggiamento non c’era nessun comportamento che lasciasse trasparire questo particolare, che prima consideravo fondamentale ma che ora mi rendo conto essere solo un dettaglio al quale ho dato stupidamente troppa importanza. Il motore si riaccende e dopo qualche minuto arriviamo in quello che ci spiegano essere lo stabilimento per la produzione vinicola gestita dai ragazzi stessi.

Respiro aria fresca e il profumo di foglie secche che scendono dalle querce che circondano la zona. Qualche secondo ed entriamo nell’edificio, l’odore acre del vino in fermentazione mi riempie i polmoni, ci accoglie un ragazzo giovane, si capisce che è un tipo in gamba. Spiega il metodo da loro utilizzato guidandoci tra le sale, concludiamo il tour tra le botti d’invecchiamento. Qui è tutto così ordinato, organizzato, come nella migliore delle aziende vinicole, se prima respiravo soltanto il profumo della vinaccia, ora sento anche la voglia di lavorare, di mettersi in gioco e di dare il meglio per un obiettivo comune. Passo tra i tavoli e gli arredamenti realizzati con vecchi barili; osservo il soffitto a volte decorato a mano, una miriade di foglie di vite riempiono lo sfondo bianco con calde tonalità. Le parole del ragazzo mi riportano con i piedi a terra, sta raccontando la sua esperienza, e per poco non rimango a bocca aperta, anche se questo è solo un assaggio di ciò che mi aspetterà. Mi stupisco di come riesca a raccontarci episodi così privati della sua vita senza alcun problema, come se ci conoscesse da una vita, senza vergogna, consapevole del suo passato.

Ci saluta e ci incamminiamo assieme a Delia e Gaetano verso le stalle, mi sto meravigliando sempre di più di come tutto e tutti lavorino in sincronia con gli altri, di come tutti siano felici e fieri del loro lavoro, di come si impegnino per realizzare al meglio i loro prodotti. Non saprei quali parole usare per trasmettere ciò che provo, mi sento parte di questo posto, già da subito, sono rilassata, anche solo il modo di fare delle persone trasmette un certo equilibrio interiore, non camminano né troppo lentamente, né troppo in fretta, non parlano nè troppo forte, né troppo piano. Penso a quanto questi ragazzi abbiano dovuto lavorare su se stessi per ritrovarlo, questo equilibrio: mentre a me qualche volta basta respirare profondamente e liberare la mente, a loro sono serviti tre anni per far eguagliare i piatti della bilancia. Mi sento fortunata, ora tutti i problemi che prima sembrava mi stessero annegando in uno scuro oceano si sono ridotti a qualche goccia di rugiada, che osservo quasi felice per essermi resa conto della loro piccolezza.

La visita procede tranquilla, passiamo accanto alle scuderie, al canile e all’asilo, ci vengono mostrati i reparti di pelletteria e decorazione. San Patrignano è molto più di una normale comunità, potrei chiamarlo

“paese”, ma sarebbe comunque inappropriato, in un centro abitato da 1300 persone normalmente non ci sono tutte queste attività perfettamente funzionanti. Dovrebbe essere un esempio, per tutti.

Quando ormai i miei pensieri vengono sovrastati dal brontolio insistente del mio stomaco è ora di pranzo, ogni passo verso la sala da pranzo mi sembra una conquista: ho proprio fame. Delia ci tiene a spiegarci ancora alcune cose e quando parla lei a nessuno pesa dover aspettare ancora un poco per mettere qualcosa sotto i denti. Ci troviamo all’esterno del centro medico della comunità. Ci fermiamo e Delia prende la parola: “Quando decidi di porre fine alla dipendenza, e riesci nel tuo intento, ti rendi conto di quante cose ti sei perso, di come la vita ti scorresse davanti e tu stessi lì a guardare” torno con la mente al paesaggio fuori dal finestrino “quindi ragazzi, non sottovalutate mai l’affetto di un genitore, la felicità che vi può dare un piccolo gesto, nulla di tutto ciò è scontato. Le emozioni sono il nostro bene più prezioso e voi per primi, avendo tutta la vita davanti, dovete cercare di valorizzarlo al meglio.” Il suo discorso è toccante, e il mosaico con il logo della comunità che sto fissando dall’inizio del breve monologo diventa sfocato, una lacrima sta per rigarmi il volto, ma l’asciugo in fretta e cerco di ricompormi. Guardo i miei compagni, pochi sembrano essersi davvero resi conto dell’importanza delle parole di Delia, mi chiedo se sono io ad essere particolarmente sensibile ma, in realtà, poco mi importa: quelle parole mi hanno aperto gli occhi e ora mi sento un po’ più partecipe della mia vita. Spesso mi rendo conto di sottovalutare determinate situazioni, trascurando la possibilità di metterci un po’ del mio per migliorare un rapporto o un’amicizia, basta davvero poco per rendere una giornata speciale, un gesto d’affetto, un pensiero. Perché spesso ci ritroviamo a fare solamente l’indispensabile? Non siamo ne “Il libro della giungla”! Non bastano “poche briciole”, noi vogliamo il panino intero, e pure con il companatico se possibile, la vita va vissuta al meglio, una volta vecchi non dobbiamo rivolgere uno sguardo al passato dicendo: “avrei potuto fare questo e quell’altro”, i rimorsi non fanno parte di quest’esistenza e assieme a loro la tristezza e la rabbia.

Essere felici significa apprezzare ed essere grati per il dono della vita.

Per l’ennesima volta vengo catapultata nel mondo reale, ma questa volta l’urto è meno doloroso: c’è un pasto che mi aspetta. Ci rechiamo in una gigantesca sala da pranzo, dove i ragazzi della comunità sono intenti a sistemare le ultime cose prima del pranzo, una volta seduti abbiamo modo di chiacchierare a lungo con i nostri accompagnatori, ma ad un certo punto il silenzio riempie la sala e tutti si alzano in piedi, ognuno pensa a ciò che vuole, prega o riflette, passa una trentina di secondi e si riprende posto. È diventata oramai una tradizione qui a San Patrignano e credo che sia positivo perché spesso i rumori coprono i nostri pensieri, schiacciandoli, in quei trenta secondi simbolici sono invece liberi di volare, fuori dalla gabbia.

Dopo un ottimo pasto ci aspetta l’ultima parte del percorso: le testimonianze dei ragazzi. Entriamo in un grande auditorium e poco dopo si aggiunge a noi una classe di un liceo di Modena, tra i vari commenti su i nuovi arrivati, che ovviamente esaminiamo ai raggi x, a qualcuno scappa: “Certo che alcuni potrebbero fermarsi direttamente qui”. Effettivamente c’è un gruppetto di ragazze che sembra particolarmente propenso a questo stile di “vita” per i loro atteggiamenti, ma non ci do molto peso.

Marco, un altro ragazzo della comunità, comincia a raccontare la sua storia, parte dall’infanzia descrivendone ogni particolare, anche quelli che sembrerebbero superflui ma che ci aiutano a capire meglio il suo contesto di vita, inutile dire che al termine del racconto ho già inzuppato tre fazzoletti. Questi ragazzi hanno stravolto il loro mondo senza nemmeno rendersene conto, sono stati gli artefici della loro storia e per poco hanno perso di vista il fatto che ci dev’essere un lieto fine. Le situazioni che ci raccontano sono tra le più disparate, per esempio a Gaetano non mancava nulla, i suoi genitori gli davano affetto, i soldi non mancavano e seguiva la sua passione, il motocross, eppure tutto questo non ha cambiato la trama della sua storia, il colpo di scena si nascondeva già tra le righe del suo futuro.

Mentre un ragazzo racconta, un fatto distoglie l’attenzione generale dalle sue parole per spostarla su una di quelle ragazze che sembrava potessero fermarsi a San Patrignano, sta piangendo, ma non è commozione, tempestivamente uno dei ragazzi la fa alzare e la porta con sé in fondo alla sala, dove rimarranno a parlare per tutto il resto del tempo. L’episodio mi colpisce parecchio, noi scherzavamo ma ora realizzo che anche tra noi giovani c’è chi si trova in quel tipo di situazioni e ha bisogno d’aiuto, improvvisamente concretizzo tutto ciò che ci hanno trasmesso fino ad adesso, e la scossa è abbastanza traumatica.

Siamo giunti alla conclusione ed è ora di salutare i nostri ciceroni, parlo ancora un poco con Delia che si raccomanda di mandarle il nostro articolo sull’esperienza, mi faccio lasciare l’indirizzo e devo scappare: stiamo per ripartire. Salgo sul pulmino con una certa malinconia, sto ancora elaborando alcune emozioni che ho provato, alcune parole che ho ascoltato, provo una strana sensazione, come se quest’esperienza mi avesse cambiato e probabilmente è proprio così.

Guardo il paesaggio che scorre veloce sotto i miei occhi ma questa volta penso che il mio sguardo non sarà perso nel vuoto ma curioso e accorto.

Ora non vedo il mondo, lo guardo.

Chiara Facchini

Tratto da “SanpaNews”. Scopri come abbonarti.