La Mia Musica

Fin da piccolo sentivo qualcosa dentro di me. Emozioni. Sogni. Come una musica. Ma ancora non riuscivo a rendermene conto. L’unica cosa che sapevo, era che il mondo viaggiava ad un’altra velocità, con altri tempi e che io e i miei sogni dovevamo adeguarci agli altri.

A casa nostra ci sono sempre state molte regole, io e mio fratello non potevamo certo discutere. Ogni volta che sorgeva un problema, anche stupido, venivano indette riunioni di famiglia che potevano durare anche quattro ore. Una risposta sbagliata, una forchetta sbattuta sul tavolo: ogni comportamento sopra le righe corrispondeva a sermoni interminabili, che noi dovevamo ascoltare per apprendere. Era la classica famiglia per cui la domenica bisogna andare a messa, lo sport era obbligatorio, e l’aria di tranquillità che aleggiava in casa era solo apparente, e incredibilmente pesante. Soffrivo moltissimo, ma non riuscivo a esprimerlo. Lo tenevo per me. Per paura, o forse per la tensione generale, lasciavo che le discussioni terminassero da sole, facendo finta di sentire quello che dicevano. In realtà stavo ascoltando più in fondo, dentro me, la musica che avevo dentro.

Oltre alla scuola, al nuoto e a tutto quello che era stato impostato dai miei, frequentavo anche il conservatorio. Io suono la chitarra. La passione per la musica però era un mio interesse personale: mi piaceva, non c’era bisogno che mi obbligasse qualcuno a suonare. Era cominciato tutto grazie a mio fratello e i suoi amici, che suonavano già. Qualche volta avevo provato la sua chitarra, mi era piaciuto; così una volta, quando il gruppo si è riunito per suonare insieme, sono andato anch’io e ho iniziato a strimpellare insieme a loro. Da allora non ho più smesso.

Nel frattempo mio padre aveva iniziato a frequentare dei corsi di comunicazione e sul linguaggio del corpo. Io non sapevo perché, non mi interessava. Questo iniziò a diventare un mio problema solo più avanti, a 12 anni, quando mi costrinse a frequentarli insieme a lui. Io non volevo, ma come al solito non dissi nulla. A quel punto, tra l’altro, era proprio lui a insegnare e dirigere queste lezioni. Non ero assolutamente a mio agio. Erano argomenti troppo distanti dalla mia realtà, non capivo. Solo più avanti mi venne spiegato che quei corsi servivano per risolvere delle situazioni in casa, quei problemi nascosti al resto del mondo, dietro quell’alone di calma apparente. Ma allora era già troppo tardi, perché nel frattempo erano passati anni in cui avevo frequentato esclusivamente persone molto più grandi di me, i partecipanti dei corsi, che mio padre invitava a casa nostra per parlare. Ormai vivevo in una dimensione che non mi apparteneva completamente. Avevo a che fare con età diverse, discorsi diversi, mentalità diverse da quelle dei miei coetanei. Pian piano, senza accorgermene, ero cambiato.

Con i compagni di classe, a calcio, dappertutto insomma, non mi trovavo più bene. Anche se ero in mezzo agli altri era come se mi sentissi solo, come se tutti quanti avessero in testa cose diverse da quelle che avevo io. Mi ero abituato a parlare con persone più grandi, adulte; i discorsi degli adolescenti come me non mi interessavano più di tanto. Non riuscivo a relazionarmi nel modo

giusto, mi sentivo diverso, inadeguato per il contesto in cui ero. Avevamo quindici anni, ma io addosso me ne sentivo trenta. Come facevo a farmi piacere quello che piaceva a loro?

In pratica, non mi interessava quello che facevo con mio padre, non mi interessava quello che facevo con gli altri ragazzi… l’unico momento in cui mi sentivo veramente io era quando restavo da solo, io con la chitarra e la mia musica. Detta così può sembrare strana, ma sono arrivato a suonare anche per quattordici ore di fila. Era il mio mondo, era lo spazio dove esistevo come dicevo io, dove quella musica che sentivo dentro usciva fuori, confermandomi che esisteva davvero. Così iniziai ad uscire alcuni sabati sera con i compagni di classe con cui mi sentivo meglio, tipi “giusti”, che ascoltavano Hard Rock; con alcuni di loro cominciai a fare i primi live, a suonare nei locali la sera. Come loro, per sentirmi a mio agio, provo le prime canne, scoprendo che basta molto poco per stare in compagnia tranquilli, a proprio agio ovunque, con chiunque. Era quello che volevo: essere soltanto quello, vivere solo quella vita, sentire solo quella musica. Quella che avevo dentro.

Mio padre, per trovare una soluzione a questa situazione, tentò di tirarmi per le orecchie: mi obbligò a diventare arbitro di calcio come stavano già facendo i miei fratelli. Ma a quel punto non poteva più costringermi. Iniziai a fumare canne sempre più spesso, fino al punto che ogni volta che dovevo stare solo a casa con lui, prima, andavo in camera a farmi una canna. Praticamente ero sempre in casa, ma sempre fuori. Dopo poco tempo trovai altri sotterfugi, come l’Università (mai frequentata), per rifugiarmi nel mio mondo fatto di musica, amici e sostanze. Avevo conosciuto altre droghe, ero sempre fuori di testa, sempre sballato. Continuai a condurre questa vita finché una sera un mio amico non ci perse la vita. Dopo una serata in discoteca lui si staccò dl nostro gruppo, se ne andò via in macchina con un altro ragazzo, ma non arrivò mai a casa. Si schiantarono.

Dopo quell’avvenimento la mia vita precipitò sempre più in basso. Andai a vivere per due anni da mio fratello, poi da mio padre, poi per un anno abitai da solo. In quegli anni mi dedicai soltanto a una cosa: l’eroina. L’avevo conosciuta dopo l’incidente del mio amico, non seppi resistergli. Quando mi facevo non sentivo più quello che accadeva intorno. Non sentivo i problemi. Non sentivo più niente. Quel sapore amaro e metallico mi portava da un’altra parte, lontano da me stesso, distaccato da tutto quello che mi accadeva. I problemi, la mia famiglia, nessun aspetto della mia vita riusciva più a toccarmi. All’inizio pensavo fosse la soluzione, pensavo di stare meglio, anche se non sorridevo mai. Mi drogavo e basta. Poi un giorno, dopo tanti anni, mi sono accorto che stavo veramente male. Così dal nulla ho cominciato a piangere, a disperarmi, in casa mia; in un momento di lucidità mi ero reso conto della mia situazione. Ero magro, annientato; e in tutto questo ero anche rimasto completamente solo. Stavo talmente male che a quel punto per me sarebbe stato meglio morire. Non aveva più senso vivere, perché soffrire ancora?

Purtroppo mi feci quella domanda nel momento sbagliato. Mi guardavo allo specchio e i miei occhi non trasmettevano più niente, erano vuoti. Mi sedetti sul divano, al buio. Preparai tutto puntigliosamente, in due secondi era tutto pronto. Tenevo in mano quella siringa, piena di quell’ultima dose, troppo pesante per una sola persona. Ero pronto ad addormentarmi per sempre. All’improvviso, prima di procedere, il mio cervello mi fece pensare alla musica, quella

musica che avevo dentro di me. Erano anni la sentivo lontana da me, distaccata, come tutte le altre cose che avevo deciso di non sentire più. In quel momento, in penombra, vicino alla porta, vidi la mia chitarra appoggiata al muro. Sembrava che mi guardasse. Magari potrebbe sembrare banale, ma in quel momento pensai: “Non posso fare questo, se no chi la ascolterà, la mia musica, quella che mi ha accompagnato fin da piccolo?”. Era un interrogativo stupido, semplice, ma allo stesso tempo era un pensiero così vero, così autentico.

Appoggiai tutto per terra, presi il telefono. Chiamai i miei.

Dopo dieci giorni iniziai i colloqui per entrare a Sanpa.

Tratto da “SanpaNews”. Scopri come ricevere la rivista.