Canguri

-Nick…. Dove sei!!?-
– Sono in camera mamma-.
Già sapevo… dovevo andare giù, al market, a prendere latte, gratta e vinci, e la carta stagnola, (a richiesta non sempre) avevo dodici anni non sapevo che cosa se ne potesse fare di tutta quella carta, non mi dispiaceva prenderla, faceva un rumore simpatico e poi mi sembrava una pietra proveniente dallo spazio, tipo criptonite, solo che era grigia e la voleva la mamma.
-Prendimi pure la carta amore!… capito?….-
-Si mamma-

Papà ci aveva lasciato che io avevo cinque anni, non me lo ricordo bene, ma mi ricordo la carta stagnola anche con lui, delle volte mi ricordo anche che litigavano per quella; papà era strano, aveva sempre una pipa in bocca, aspirava incrociando gli occhi, poi cascava sul divano, gli piaceva farlo da in piedi. Mi diceva che era come il Bungee jumping e io ridevo, chiedendogli di farlo pure io, ma mi diceva che ci voleva il brevetto e quindi mi arrabbiavo e piangevo, ancora di più quando gli chiedevo di giocare e lui non mi rispondeva mai. Guardava l’aria intorno a sé. Un giorno se ne andò e non tornò mai più.
– Mamma i soldi!?-
-Digli che glieli porto domani e che non faccia storie, che tanto adesso sto per trovare lavoro … ok!?-
-Sì mamma-.

A dirla tutta era la solita mattinata, come tante altre.
Io arrabbiato perché non riuscivo mai ad andare a ballare insieme a Peter, che in quel periodo era il mio istruttore. Non capivo perché, ma mi diceva che il ballo mi avrebbe portato via di lì, e aveva ragione perché il centro di danza distava quasi 20 km da casa mia.
Amavo ballare, speravo che un giorno mamma avrebbe rinunciato alla carta stagnola per venire a vedermi.

Scendo le scale di corsa, devo fare in fretta, forse riesco a trovare un passaggio da Steven, quello della cartoleria. Ieri mi aveva detto che doveva passare di lì, altrimenti mi tocca fare tutta quanta la scarpinata.
L’intonaco è smosso da delle lunghe e profonde ferite di cemento: Murales, i colori della gente, impressi tra quei fulmini grigiastri.
Io passò di lì. Tra le rampe della casa popolare striscio le mani lungo il muro, restano dietro rispetto alle gambe, ogni tanto qualche pezzo di intonaco casca. A me piace da matti sentirlo staccarsi.
Philip, il vecchio che sta sempre davanti al condominio, mi avverte di smetterla (per l’ennesima volta) io gli rispondo.
-Mi scusi signor Philip-
Poi lui continua a spiegarmi il perché e il per come, ma io sono già abbastanza lontano per non sentirlo e abbastanza vicino per vedere l’insegna del Market di “George & Sabrina”.
Penso che quel negozio fosse l’unica cosa rimasta luminosa del quartiere, il resto era tutto grigio o nero, o marrone scuro, persino le persone che si accasciavano lungo la strada erano dello stesso colore, sembrava che a furia di stare stesi sui marciapiedi ne avessero preso le tinte.
Spesso ridevo a quel pensiero, era così buffo per me.

Eccoci di fronte alla stella del quartiere.
Sicuramente questa idea deve essere stata di George, certo che George ci sa proprio fare con ste cose.
Entrai dopo avere perso qualche attimo a seguire con il dito le lettere della frase. Mamma mi diceva che se non volevo restare lì dovevo assolutamente imparare a leggere e a scrivere, anche se non mi mandava a scuola(perché secondo lei era una spesa esagerata).
“ All you need is…. HERE”.
– Ciao Nick!- Sabrina era perfetta, era la mamma che avrei sempre voluto avere, era gentilissima, portava il camice da cuoca dentro il negozio con un grosso taschino frontale, mi immaginavo sempre di finirci dentro, specialmente quando era inverno, per poi girare per la città, al caldo a fare compere, cucinare, andare al cinema, tipo canguro.

– Che hai fatto Nick in faccia!?- – Niente signor George- – Come niente? Guarda lì, è stata di nuovo lei?- Come al solito Sabrina mi difendeva rendendosi conto che io non avrei mai detto niente e che così, per quanto mi volessero aiutare, mi stavano solo mettendo in difficoltà. Non è che mamma fosse cattiva e che spesso si dimenticava di me, di chi ero, e tante altre volte anche di come mi chiamavo, ma io sapevo di chi era la colpa.
Erano quelle dannate caramelle, con tutte quelle “x” quelle “mina…. ina” scritte sui pacchetti. Ogni volta che le prendeva si dimenticava, poi si arrabbiava dicendomi chi cazzo fossi io, poi mi picchiava e infine una volta stanca si rimetteva stesa sul divano, nuda, e sembrava aspettare non so chi, dicendomi alla fine …
– No ma tu sei Nick… il mio piccolino-
Era il momento che amavo di più, quello in cui lei si ricordava di me, non mi interessava il resto volevo solo che lei si ricordasse, e basta.
-Tieni, ecco qua quello che ti serve…. Di alla mamma che questa volta offriamo noi ok? Controlla se c’è tutto però prima. Latte. Gratta e vinci “ Win the life “, va bene ? ti serve anche la carta?!-
Pensavo ancora ai canguri, e alle caramelle che facevano dimenticare… magari se ne avessi presa una mi sarei dimenticato anche io, magari anche delle cose che non voglio ricordare- Nick?….. mi senti?…… ti serve anche la carta?-
– Si…. grazie signora- mi dà la criptonite color grigio e mi giro.
George mi guardava sempre preoccupato quando me ne andavo, io abbassavo lo sguardo, cercando di non farci caso, concentrandomi sul campanello appeso alla porta, abbastanza basso da suonare ogni volta che questa si apriva e chiudeva.
Mi piaceva ricordarmeli con un tintinnio così allegro come quello, pensavo fosse proprio azzeccato per quel negozio e per le persone che ci stavano dentro.
Poi svanisce, sono di nuovo in mezzo al grigio.
Penso di saltellare verso casa, senza nemmeno accorgermene comincio a farlo veramente, qualcuno si gira e ride, pensando che io sia un bambino, un dodicenne dalla fervida immaginazione, senza pensieri, sorridente.

Eccomi di nuovo per le scale di casa, spero che oggi mamma si ricordi di me e che abbia il grembiule di Sabrina così l’immagine può continuare, così io posso saltarci dentro, e lei può portarmi dove vuole, dicendomi di tenermi stretto a lei perché adesso dobbiamo fare un grosso salto; io rido e la tengo stretta cercando di spalmarmici intorno per far si che non si scordi mai più di me.

C’è un odore insolito in casa, la porta è socchiusa, pipì, strano, non abbiamo gatti ne cani.
Appoggio le chiavi, che non ho dovuto usare, sul mobile di fronte all’ingresso color bordeux.
Il rumore di chiavi sembrava essere l’unico, insieme a quello di una voce calda, coinvolgente, parlava dell’Australia, “NatGeo-Wild”, mamma lo guardava sempre.
Me la immagino davanti al divano, magari si è addormentata.
Si aggiungono altri rumori, i miei passi sulle piastrelle, lo stridulo della busta bianca, di quel negozio tintinnante.
L’odore si fa sempre più forte, la voce sempre più calda.
Il pavimento era macchiato dell’acqua della fioriera, che si era ribaltata sul tavolino al centro del salotto. Quel tavolino c’era sempre stato fin da quando c’era papà, ci appoggiava sempre la pipa lui.
Una rosa era barcollante sul ciglio del tavolo, l’altra era per terra con i petali appoggiati sul pavimento quasi impercettibilmente adagiati.
Come mamma.
La voce dice che i canguri sono capaci di fare salti lunghi fino a tre metri e di superare i due di altezza.
Sul tavolo ci sono le caramelle, tante, troppe forse.
Lei è appoggiata sul tavolino, lei è stesa sul tavolino, lei è accasciata sul tavolino.
Ancora quelle “X” ancora quelle “ina, xina, tina ecc..” cosa cazzo vogliono dire!.
Mi dà la schiena è rivolta verso il televisore, rivolta verso i canguri e i loro salti lunghi tre metri.

La fantasia comincia a lavorare, sta dormendo, è bella anche quando dorme…. Su un lungo cuscino nero e morbido sui suoi capelli che si sciolgono sul braccio che poggia su quel tavolino.
Appoggio la busta, faccio il giro fingendo di essere sicuro che stesse dormendo.
Spero che si svegli, magari anche arrabbiata, magari si è dimenticata di me, ma fa lo stesso. Basta che si svegli. Le do un lieve strattone e me ne vado via subito dicendo –è lì la busta mamma, ho preso anche la carta, ha detto Sabrina che offrono loro per sto giro-.

Aspetto una risposta che non è mai arrivata. Le ritorno di fronte, un altro strattone, altro silenzio.
Comincio a capire da dove arriva il puzzo. E’ lei. Vedo il divano macchiato. Quando si muore ci si lascia andare come non lo si è mai fatto. Era nuda. Sembrava essere seduta. I calzetti, erano l’unica cosa che indossava, sono bagnati, puzzano di pipì anche quelli. Non so cosa fare…… mi guardo intorno….. il salotto è color panna…… c’è un televisore a cassa sopra un comodino marrone il resto dei mobili sono raccattati in giro e donati dalle associazioni del comune, non c’è ne nemmeno uno in tinta, non ce ne nemmeno uno che mi distragga un po’ con i suoi colori. Mi perdo a guardare per terra, non riesco a chiamare nessuno, un colpo di retina mi lancia contro il televisore, mamma è di fianco a me. Penso che le caramelle gli abbiano tolto così tanta memoria che si sia dimenticata pure di se stessa. Penso di prenderne un po’ pure io, magari mi portano da lei. La guardo in viso ma gli occhi sono semi chiusi, sembrano guardare altrove, magari lì le mamme hanno delle grosse sacche calde all’altezza della pancia, saltano in giro, e sorridono con i loro piccoli.

Piango e stringo i pugni, sogno incubi, voglio andare a ballare, voglio scarpinare per quei maledetti 20 km, tornare e trovare tutto come deve essere, come è sempre stato.
Voglio che quel puzzo svanisca, voglio che la mamma apra gli occhi interamente, che si alzi, che raccolga la vasiera e dica – Hops… cavolo si è bagnato tutto- che butti via quelle caramelle per sempre, che compri dei divani nuovi, in tinta, belli. Voglio che quella casa smetta di essere un bunker color panna, che smetta di essere tutta quadrata e minuscola, voglio avere un letto e non un divano, svegliarmi la mattina e poter aprire una finestra che ora non c’è, trovare un parco sotto casa mia ed in mezzo a quel parco il negozio di George & Sabrina illuminato dai riflessi del sole, andare lì e pagare tutti i debiti, tornare e vedere mia madre che cucina, che si gira e mi chiede se ho preso la farina, con i capelli neri color carbone che gli si infilano in bocca, ed io rido per questo perché non vorrei altro. Invece no.
Lei ha un rivolo di bava lungo le labbra e non mi chiede se ho preso la farina.
Piango e grido, guardo in alto verso il soffitto c’è un lampada senza copertura, è rimasta solo la lampadina, mamma ha preferito vendere il resto, mi concentro, voglio urlare talmente tanto da farla esplodere quella lampadina!
…in lontananza sento una voce…..
-Nick… mi sono dimenticata di darti…… i…. “win for…..-
….. è calda….è morbida….. –Nick?-….. -Ti ricordi di me?-……..
Mi fa male la gola, ho urlato troppo, la lampadina è ancora lì….. non mi interessa…. Qui si sta bene….. la casa è tappezzata di uomini in divisa… nastri e strisce…. Della mamma resta solo una sagoma bianca disegnata sul divano, dei coni, delle scatole, e un sacco nero che la ricopre.
Ne ho sentito parlare tra i poliziotti, psicofarmaci, ecco il nome delle caramelle, overdose di psicofarmaci, le bandirò da tutti i bar.
Nel frattempo continuavo a stringere Sabrina forte forte, mi spalmavo come mi ero immaginato prima.
Da quel giorno ho deciso di cambiare qualcosa nella mia vita, ho pensato di ballare, ho pensato che quei 20km non sono tanti in fondo.
Voglio ballare! voglio ballare talmente tanto, talmente bene, che nessuno potrà dimenticarsi mai più di me, voglio chiamare il mio gruppo come la mia mamma così nessuno si dimenticherà più nemmeno di lei.
Ma ora basta…. sono stanco…… la voce calda continua…. I canguri hanno delle sacche profonde sulla pancia…. per tenere i più piccoli….i canguri hanno delle sacche…. Profonde ……..per…..piccoli……. i….. CANGURI.

In Canada l’abuso di farmaci è diffusissimo. Michael Prosserman, fondatore di Unity Charity, ha perso la sua mamma per questo motivo. Ha scelto di reagire, di vivere, di lottare dedicandosi alla sua grandissima passione: IL BALLO. E a scelto di aiutare i giovani a trasformare la rabbia in modelli di comportamento positivo, portandoli a seguire le proprie passioni e a fare le scelte giuste nella vita.

Ecco alcune informazioni sull’associazione canadese Unity Charity: https://wefree.it/unity-charity