Ritagli di vita

Sono sdraiata sul letto, adagiata su un fianco mentre con la mano sinistra mi accarezzo una ciocca di capelli e con l’altra stringo la penna tra le dita. Sotto un foglio bianco. Ho spento la luce della mia stanza, accostato la porta, ma il foglio si illumina prepotentemente alla luce di una piccola lampadina. La penna è incerta, forse anche lei è piena di paure. Ad un tratto inizia a scivolare ed è come tornare in bicicletta dopo anni, non ci si dimentica come si fa. Intorno a me il silenzio. Chiudo gli occhi, li riapro e mi guardo attorno. Il soffitto e le pareti sono grigio chiaro, qua e là ci sono residui di dentifricio usato come nastro adesivo per incollare ritagli e foto che ora non ci sono più, perché la ragazza che occupava questa stanza prima di me se li è portati via. La finestra è strana, non si riapre, in realtà è un vetro su cui camminano sbarre larghe e fredde di metallo. Nella parte più bassa c’è una piccola griglia che si può aprire e chiudere per fare entrare l’aria. Fuori, nel cielo, gli aerei tracciano scie bianche che disegnano la libertà che ho perso o che forse mi illudevo di avere. La cella è piccola, soffocante ma paradossalmente accogliente, rassicurante. Non ha voce ma urla, rimpianti, paura, tristezza. C’è una scrivania, anch’essa è grigia con tre cassetti sul lato destro e un piccolo scaffale su quello sinistro. Dentro ci sono degli asciugamani piegati e dei vestiti. In realtà sono la felpa ed il pantalone che indossavo al momento dell’arresto. C’è anche la mia giacca antivento nera, che se ne sta lì piegata, forse per la prima volta. Ha un colore molto forte, familiare. C’è odore di sottoscala, di cemento, cartoni, polvere , umidità, di strada. Inspiro e trattengo quell’odore dentro di me perché non voglio lasciarlo andare, non voglio perdere pure quell’ultimo strascico di quella che fino a poco tempo fa era la mia casa. Un water, un lavandino e uno specchio. Un water, un lavandino e uno specchio. E poi una porta, anzi la porta. Un’immensa lastra d’acciaio ferita solo da una minuscola finestrella che mi separa dall’ala in cui mi trovo, la A, nel blocco 2 quello delle tossiche. Circa 200 detenute a blocco per quattro blocchi, oltre al central bloch, quello della cucina, della biblioteca, delle classi scolastiche, della palestra e di alcuni uffici. Fortuna che è un carcere inglese e gli inglesi, si sa, sono avanti su tutto. La televisione trasmette un programma di cui non capisco le parole ma per lo meno riempie questo maledetto silenzio che ormai si è seduto sul mio petto. È pesante, mi spezza il fiato. Le lenzuola sono umide, il letto completamente disfatto. Distendo le gambe nel tentativo di trovare sollievo ma è inutile. I muscoli sembrano restringersi ad ogni secondo che passa. Ho la bocca piena di saliva, sento di dovermi alzare e muovermi e sedermi sul water ma non ho il coraggio di scoprirmi. Sento freddo, i brividi nel cervello e puzzo di fallimento, di sconfitta, di amarezza e di solitudine. Non è possibile, dov’è? Devo avere qualcosa con me, qualunque cosa. Metto le mani nel reggiseno e cerco e ricerco e cerco ancora. La giacca? Senza accorgermene sono sul pavimento piegata a ispezionare ogni centimetro quadro di quell’indumento che è l’unica speranza. Cerco la salvezza ma non la trovo. Il panico mi sta soffocando, ho bisogno d’aria, devo uscire di qui. Com’è possibile che non ci sia un buco? Mi ritrovo attaccata a quell’inutile griglia, cercando di strappare un po’ di ossigeno dall’esterno di quella maledetta cella. Com’è potuto accadere? Niente ha più senso. I ricordi quelle ultime ore si susseguono a raffica: Alberto che esce dal coma, lui che mi urla addosso mentre io urlo a lui, i miei pianti, gli strattoni, quel bacio infinito mentre il mondo attorno smette di respirare; poi tutti quegli agenti di polizia e senza nemmeno accorgercene ci ritroviamo in manette. Mentre il giudice proclama la condanna, le sue parole aleggiano nell’aria e una bolla di diazepam ovatta quel tribunale in cui neanche mi rendo conto di essere.

Richiudo gli occhi, stavolta li stringo forte perché il dolore del ricordo mi acceca. Ho persino paura di riaprirli. Poi uno ad uno, con incertezza li schiudo. Riecco la mia cameretta, le mura gialline, il letto a castello di Ludovica e il mio letto. L’armadio accostato, intravedo i vestiti ben riposti. Nella stanza accanto alcune delle ragazze con cui vivo ridacchiano e si raccontano guardando le fotografie, è il nostro modo di trascorrere le domeniche a Sanpa. Anch’io ho delle foto vere, non ritagli di vita di qualcunaltro. Ritraggono me e mia madre al suo compleanno, mio fratello quando gattonava, me e le ragazze in settore. La fisso a lungo per assicurarmi che siano vere e non svaniscano.
Sara
 
Tratto da “SanpaNews”. Scopri come riceverlo.