Io, Lucky e la mia giacca

Qualcosa di umido sulla faccia.
Una fastidiosa sensazione di bagnato, un peso sgradito sul corpo, una presenza che si muove, in continuazione, facendomi sobbalzare. Malvolentieri riemergo dal buio del mio sonno ed accanto a me, col suo muso peloso poggiato sul letto e gli occhi perennemente imploranti c’è lui, Lucky, il mio cane. No Lucky, smamma! Sta buono, a cuccia!

Stamattina non se ne parla di passeggiate. Stamattina sto proprio male. Devo farmi, subito, adesso. Lucky a cuccia, dannazione! Ma dov’è la mia giacca??? Dove diavolo l’ho messa???

Mi alzo come un automa. Ad un tratto tutto diventa sopportabile, la stanchezza, i muscoli che tirano, il senso di nausea. Tutto messo da parte, messo in un angolo da un solo, confortante pensiero: ce l’ho. E’ nella giacca. Ho tutto. Arrivo all’attaccapanni. Frugo nelle tasche…nulla!

Come è possibile???

I ricordi di ieri sera mi si susseguono davanti come un fotogramma. Il freddo, la nebbia, quel casolare abbandonato. Poi il solito rituale. Accendino, paura che arrivi qualcuno, ansia, euforia, cinta sfilata dai jeans, l’eroina che scivola in corpo, il caldo, troppo, spilli nella testa, una sensazione di nausea fortissima, fango, fazzoletti di carta, sigaretta. Calma. Solitudine.

Non ricordo il viaggio di ritorno ma l’arrivo a casa sì. A fatica scendo dalla macchina, vado verso il portone. I miei movimenti sono lentissimi. Ogni tanto mi addormento in piedi. Stavolta ho esagerato. Prendo l’ascensore, evito di guardarmi allo specchio ormai da tempo, tre piani mi sembrano interminabili. A fatica trovo le chiavi di casa, entro, cerco di far piano, è notte fonda. Lucky mi viene incontro, lo scanso, tolgo la giacca, la appendo insieme alle altre su un attaccapanni sempre troppo pieno. Raggiungo la mia camera, riesco a togliermi solo le scarpe infangate e mi butto sul letto vestito. Sono stanco. Non ce la faccio più. Mi addormento.

Mentre cammino per il corridoio vengo percorso da un brivido e quando mi affaccio sulla porta della cucina quello che vedo mi colpisce come una bastonata colpisce una bestia indifesa. Mia madre è in piedi, vicino al tavolo. E’ pallida, sembra una statua di cera, mi guarda con occhi duri ma nello stesso tempo pieni di disperazione. Indossa la mia giacca. Io dormivo ed il cane lo ha fatto uscire lei. Prima di uscire ha preso una giacca dall’attaccapanni sempre troppo pieno. La prima che ha trovato, l’ultima ad essere stata appesa. La mia. Le è bastato mettere le mani in tasca perché il mondo le crollasse addosso definitivamente. Ora non potevo più negare, non potevo più nascondermi, né fuggire. Quella giacca è troppo grande per lei, è troppo pesante con il suo contenuto rovesciato sul tavolo. E’ tutto così surreale! Siringhe, lacci, fazzoletti sporchi, bustine di cellophane stonano sul tavolo accanto alla caffettiera, alle tazze, alle fette biscottate, a tutto ciò che mi teneva legato con un filo sottilissimo all’illusione di avere una vita normale.

Non riesco a dire niente. Non riesco a muovermi, come se in tutte le giunture avessero colato del cemento. Ma penso alla mia vita e la vedo come una corda marcia, spezzata, sfilacciata, distrutta.

Mia madre dice poche parole ma pesanti come un macigno: adesso basta Ale, o ti fai curare o te ne vai per sempre e con me, ti giuro, hai chiuso. Era seria come non lo era mai stata ed in quel momento io ho sentito avvolgermi un’ondata di tristezza e solitudine ma anche, stranamente, di speranza, inaspettata ed incontenibile. ‘Ho bisogno di aiuto mamma!!!’

Da quel momento ho avuto solo lacrime. Davanti a tutto quello che mi veniva detto, raccomandato, consigliato non ho potuto far altro che arrendermi all’evidenza singhiozzando come un bambino sopraffatto dalle ragioni inattaccabili di un adulto. E sono entrato in comunità. A San Patrignano.

Ci sono stati momenti in cui pensavo a tutti i minuti, le ore, i giorni, le settimane, i mesi e gli anni che avrei dovuto passare chiuso qui e mi mancava il respiro, come se qualcuno mi mettesse un piede sul cuore ed ero sicuro che mai niente e nessuno avrebbe mai lasciato dentro di me un segno pari a quello lasciato dalla droga. Ma per fortuna non è stato così. Per fortuna con l’aiuto di qualcuno e con tanta forza di volontà ho aperto le sbarre che imprigionavano la mia vita ed ora sono di nuovo libero.

Lucky mi guarda, la coda sbatte sullo stipite della porta, occhi imploranti da ‘cane bastonato’, guinzaglio a penzoloni in bocca. Mi alzo, infilo la tuta, le scarpe da ginnastica. Aspetta cavolo, adesso scendiamo!!!! In cucina rumori familiari, mia madre è già sveglia e me lo conferma l’odore di caffè. ‘Porto giù il cane’!! Passo davanti all’attaccapanni e prendo la giacca, quella stessa giacca. Fa freddo stamattina.

Mentre vedo Lucky inseguire un gatto a velocità supersonica rido e mi metto le mani nelle tasche.

Questa volta sono piene di sogni.